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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Un'idea di dostoevskij
7 Novembre 2024

Molto più che Un’idea di Dostoevskij, un saggio di Fausto Malcovati

Adele Porzia, «ClassiCult.it»

Ricordo il mio primissimo libro di letteratura russa. Ero al liceo e, in un negozio dell’usato, avevo trovato un’edizione sfatta, senza copertina, con le pagine macchiate di caffè. Era un libro talmente malmesso che il proprietario me lo regalò. E, così, con Il maestro e Margheritadi Michail Afanas’evič Bulgakov me ne tornai a casa. Lo lessi qualche giorno dopo e non capì molto della storia, né tanto meno il suo senso profondo. Poi ci ho riprovato un annetto dopo, ma comunque senza grandi differenze.

Eppure, c’era una frase che continuava a saltarmi all’occhio dopo ogni lettura. Quella celeberrima affermazione di Korov’ev,che sostiene ad un certo punto del libro, con fare risentito, che Dostoevskij è immortale. E io, quel nome lì, l’avevo già sentito. Eccome se l’avevo sentito. E di lì a pochi mesi avrei letto Le notti bianche e, poi,Il giocatore, che è ancora adesso il mio romanzo preferito in assoluto.

Poi è toccato, piano piano, a tutti gli altri, ma spesso mi sono sentita come la priva volta che ho letto il capolavoro di Bulgakov: come se non fosse quello il momento giusto, come se non fossi abbastanza matura e attenta per comprendere il senso profondo di quello che stavo leggendo. Quando, infatti, è toccato a Delitto e Castigo non mi era rimasto niente. Poi, a distanza di anni, quando sono tornata sui miei passi, ho ripreso il libro, avvertendo una spinta segreta e irresistibile verso quel tomo di quasi seicento parole, mi si è formata dentro una voragine. Così con Memorie del sottosuolo. Così con L’idiota. Mi si è aperta una ferita che mi costringe a leggere e rileggere. E sono certa che ad ogni lettura e rilettura verrà fuori qualcosa di diverso, di nuovo, di inaspettato.

Eppure, non posso negare che, non avendo studiato russo (cosa che in questi ultimi mesi mi sta pesando particolarmente), mi perdo molto. A chi mancasse qualche nozione sulla lingua e sulla cultura russa, consiglierei di alternare alla lettura di Tolstoj e Dostoevskij, di Gogol e di Turgenev, con qualche bel manuale e saggio, procedura fondamentale per capire meglio l’universo nel quale ci si addentra. Perché ogni letteratura è un universo a sé e merita delle indicazioni preliminari, delle avvertenze. In tal senso può essere una bussola, una cartina, per ambientarsi meglio il saggio, edito da Cuepress, Un’idea di Dostoevskij, che racconta la vita e le opere di questo straordinario scrittore.

Ad averlo scritto è Fausto Malcovati, docente di Lingua e Letteratura Russa presso l’Università di Milano. Oltre ad essere un esperto di cultura russa, il professore ha vinto il premio Ubu per il valore della sua ricerca, ha tradotto tutto il teatro di Cechov, pubblicato scritti sui principali maestri di regia, come Stanislavskij, Mejerchol’d e Vachtangov e si è occupato di simbolismo russo, in particolare nelle opere di Vjaceslav Ivanov e di Valerij Briusov. Ha scritto, inoltre, diversi saggi e monografie dedicate a Gogol’, Tolstoj e Dostoevskij.

Attraverso questo saggio, Malcovati vuole offrire un’agile guida, un valido prontuario ai lettori, siano essi profani o attenti conoscitori dello scrittore. Non mancano le citazioni agli scritti, alle lettere, ad altri saggi, e la vita di Dostoevskij è passata attentamente al setaccio, dall’infanzia sino alla morte. Il professore non dimentica, inoltre, di riassumere la trama delle opere e i temi che vengono trattati.

Si può dire che il grande pregio di questo volume è quello che concentra in pochissime pagine (poco più di centoventi) un numero incredibile di informazioni sullo scrittore. Ne viene inserito ogni singolo aspetto della vita e del pensiero, tanto che posso affermare che sia uno dei libri più completi e precisi scritti sulla vita di Dostoevskij.

Fausto Malcovati elenca finanche le letture che questo grande scrittore russo ha fatto in giovinezza, la sua passione per Schiller (che torna in tante opere, soprattutto in Delitto e Castigo, quando lo stesso Raskolvikov viene considerto uno ‘Schiller’, un idealista, e così anche in Umiliati e offesi), il suo amore per il teatro, cui si recava spesso.

Malcovati ci permette di scoprire come Dostoevskij ha iniziato il suo viaggio nella scrittura proprio con tre opere teatrali – Maria Stuarda, Boris Godunov e L’ebreo Jankel – dalla forte influenza schilleriana e puškiana, che però sono andate perdute. Le informazioni su quello che era Dostoevskij – prima di Povera gente o prima dei grandi capolavori come Delitto e CastigoL’idiota, I demoni e I fratelli Karamazov – ci aiutano a capire come sia nato e come si sia evoluto il suo talento nella scrittura. Non è un caso, insomma, che una casa editrice che pubblica soprattutto di teatro, come la Cuepress, abbia ospitato un saggio così ben fatto. La ragione si trova proprio nella grande importanza che il teatro ha avuto nella vita e nell’opera di Dostoevskij.

Lo stesso Vladimir Nabokov, in Lezioni di letteratura russa, sostiene che più che un romanziere Dostoevskij fosse uno scrittore di teatro e non ha tutti i torti. Lo stesso Delitto e Castigo sembra un dramma che si consuma a teatro, con gli attori che si esprimono in lunghi monologhi. Nabokov non intendeva elogiare Dostoevkij (anzi, tutto il contrario, perché non lo apprezzava molto come romanziere) ma, seppur nel desiderio di muovergli una critica, ha detto una grande verità. Forse ha anche svelato il segreto di questo scrittore che, come un grande drammaturgo, riusciva a vedere nitidamente i personaggi e a dare loro un linguaggio unico.

Che dire? Che altro si può dire? Da lettrice della letteratura russa, da neofita e profana, da appassionata dei libri e della vita di Dostoevskij, non posso che consigliare questo libro agli addetti ai lavori come ai profani. Sarà un modo per entrare intimamente e profondamente nella vita e nell’opera di Fedor Dostoevskij. Un viaggio che non può che risultare straordinario. E, visto che ‘un’idea di Dostoevskij’ me la sono fatta, ora vado a (ri)leggere L’idiota con ancora più godimento. Chissà che non scopra altro su questo profondo romanziere e, come accade con la grande letteratura, qualcosa in più su di me.

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68 mostra internazionale del cinema di venezia
4 Novembre 2024

Sei protagonisti un po’ anomali. Nel tracciato della cultura registica di Eduardo e Strehler. Con Pirandello da raccordo

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Claudio Meldolesi (1942-2009) raccolse questi saggi nel 1987, quattro anni dopo la pubblicazione del volume che sarebbe diventato un classico, Fondamenti di teatro italiano. La generazione di registi, nel quale sono da ricercare le premesse di quel discorso che a suo avviso riguardava «il ritardo qualitativo» del nostro teatro, compreso «l’aggiornamento registico» che definiva un po’ anomalo, perché, negli anni Quaranta-Cinquanta, prima e dopo il conflitto mondiale, non esprimeva una sua particolarità nel campo della regia, della quale Meldolesi ha preferito analizzare la sua nascita, sia durante il periodo della formazione che in quello della maturità.

Per parecchi di noi Fondamenti di teatro italiano è stata una guida storica, oltre che metodologica, sia per la conoscenza pratica (Meldolesi aveva un diploma di attore), sia per il particolare uso di strumenti analitici, gli stessi che troviamo nel libro pubblicato da Cue Press, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano, preceduto da una premessa di Laura Mariani che ben conosceva l’autore.

Come si può intuire, lo studio di Meldolesi riguarda sei protagonisti un po’ anomali del teatro italiano, si va da Totò, di cui analizza soltanto il suo lungo impegno di attore di teatro, prima dei successi cinematografici, al primo Eduardo, ovvero dell’attore che scrive del suo giovanile mondo poetico, dal Caffé Teatro all’Avanspettacolo, alla Rivista, prima delle grandi commedie dei Giorni dispari e della nuova tecnica rappresentativa, libera dagli influssi farseschi e dagli influssi pirandelliani, di cui aveva assimilato la scrittura, ma non certo la creatività.

Ritengo fondamentale il saggio su Mario Apollonio, essendo stato anche mio maestro, di cui analizza il doppio ruolo di teorico e di critico, quello esercitato sulle pagine della rivista «Drammaturgia» che, non aveva accettato del tutto l’avvento della regia, non ancora definita ‘critica’, perché esercitata tra gli anni Quaranta-Cinquanta, benché Apollonio avesse intravisto il passaggio dell’’attore versus regia’, riferendosi, in particolare, a Giorgio Strehler che, pur rispettando, in un primo momento, la cultura dell’attore, solo successivamente imporrà la cultura del regista.

Meldolesi riconosce lo sguardo dottrinario di Apollonio, la sua idea di teatro comunitario, inteso come coro, come assemblea, idea ripresa dai suoi allievi e portata avanti in maniera pratica, con la nascita del CRT, inoltre gli riconosce la certezza che nella regia si dovesse vedere una parte concreta di teatro. Un simile passaggio Meldolesi lo nota nel giovane Strehler, in quel suo primo approccio alla regia che sapeva di ‘avanguardia’, soprattutto nei dieci spettacoli che realizzò prima della nascita del Piccolo Teatro, quando, pur accettando il manierismo degli attori che dirigeva, si sforzò di indirizzarli verso una forma di compromesso con le esigenze della cultura registica, ovvero di quel senso critico che bisognava dare all’interpretazione, senso che maturò, secondo Meldolesi, già nella prima delle quattro edizioni dei Giganti della montagna che, messe insieme, designano un tracciato evolutivo della regia critica.

Proprio a Pirandello è dedicato il saggio successivo, essendo lo scrittore che segna un raccordo tra Eduardo e Strehler, ritenuto anche inventore di pratiche sceniche che avevano a che fare con la regia, non per nulla, Meldolesi analizza alcune messinscene che appartengono alla storia, come Questa sera si recita a soggetto del Living e I giganti della montagna di Strehler. L’ultimo capitolo è dedicato a Gadda, quello del suo lavoro alla RAI, durante il quale ebbe modo di conoscere attori e registi e quindi la pratica scenica che egli trasformò in una specie di laboratorio personale che segnò un confine tra narrazione e rappresentazione, confine che scoprì Luca Ronconi quando decise di portare in scena Quel pasticciaccio brutto di via Merulana. Gadda aveva scritto per il teatro un solo testo, Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, per un programma radiofonico nel 1958, di cui ricordo la prima messinscena, al Teatro Filodrammatici di Milano, con Paolo Bonacelli, nel 1966, regia Sandro Rossi.

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Boll
27 Ottobre 2024

Un sorso di terra agli affamati

Alessandra Iadicicco, «Corriere della Sera»

Alzando lo sguardo non si vede che acqua, a perdita d’occhio. È il mare, ma la sua immensa distesa azzurra non suscita quiete, desiderio, ristoro, voglia di partire o di tuffarsi e nuotare. Ha divorato la terra, è un emblema di morte. Ci sono i pesci dentro, certo, ma è vietato mangiarli, perfino nominarli, come è vietato buttarsi in acqua, e d’altra parte a chi mai verrebbe in mente di farlo? L’immersione corrisponde a una punizione, dosata in crescendo col calare giù giù il castigato, che è rinchiuso in una gabbia, anche fino alla gola. È un battesimo al contrario, il ‘cattivo battesimo’ somministrato da quelli che comandano ai poveri Cresti, un nome che richiama evidentemente per assonanza certi ben noti ‘poveri cristi’, ma, si vedrà, anche qualcosa d’altro, qualcosa che inevitabilmente sfugge e che anche volendo non si può eliminare.

Nel paesaggio post-apocalittico o post-diluviano, immaginato per una scena teatrale da Heinrich Böll (1917-1985), la società dei sopravvissuti, aggrappati a un isolotto artificiale e disperatamente bramosi di Un sorso di terra, il titolo del dramma, è rigidamente gerarchizzata. I Cresti stanno sul gradino più basso, rivestono un abito grigiastro-incolore e via via, risalendo questa schematica quanto rudimentale scala sociale, i vari personaggi indossano vesti, ovvero delle specie di tute, blu, o verdi, o rosse, o bianche, fino al colore dorato. La loro attività principale consiste nel ripescare dai fondali reperti del passato, del mondo che fu, per lo più vecchie lattine sommerse, scatolame vario e, vera pesca miracolosa, perfino arrugginiti frigoriferi ricoperti di alghe, scrigni di viveri insomma.

Il privilegio di cui, salendo di grado, si può godere, è misurato in base alla quantità di cibo cui si ha diritto, e si badi che le quantità sono minime, che le differenze tra le porzioni di nutrimento concesse sono dell’ordine di pochi grammi. Il motore che aziona e scatena moti dell’animo, che risveglia i sentimenti, i vizi e le virtù – cioè avidità, ambizione, compassione, spirito di sacrificio, vitalità dei sensi, spirito di contraddizione – è la fame.

Lo scenario è fantascientifico, distopia di un mondo a venire che fa ripiombare l’umanità in una situazione primitiva-elementare. Lo scrittore tedesco, premio Nobel 1972, lo immaginò nel 1962, un anno dopo la costruzione del Muro di Berlino, in piena guerra fredda, ma con ben viva la memoria del secondo conflitto mondiale che lo vide combattente e ‘libero prigioniero’ – nel senso che quella prigionia fu per lui il principio della libertà – degli americani, e che lasciò un segno indelebile nella sua intera opera, ascritta alla Trümmerliteratur, alla letteratura di quelle macerie presenti ovunque nella Germania devastata anche quando rimosse: in forma di edifici distrutti – nella Colonia di Böll, per esempio, in cui restò in piedi solo il campanile del Duomo – , di cumuli di detriti, di quella polvere di cemento che anche anni dopo si infilava in ogni cosa: «Nella zuppa, nei letti, nei vestiti, nei denti, nelle ferite…». Si fosse potuta mangiare quella polvere…

La fame è indimenticabile per chi l’ha provata ed è un motivo presente e ricorrente nei testi di Böll, si pensi solo a Das Brot der frühen Jahre (Il pane dei verdi anni), romanzo del 1955 in cui al giovane protagonista, nell’immediato dopoguerra, una pagnotta appena sfornata sembrava un animale vivo.

Qui, in questo testo teatrale – che è un caso quasi unico nell’opera di Böll, il quale scrisse solo un secondo dramma, Lebbra, portato in scena nel 1970 – invece è proprio la terra a prendere vita e a simboleggiare la vita: «Era pane e fiori la terra, era alberi e letto per chi sapeva volere e godere, era quiete per i morti… ma l’acqua la inghiottì».

Il testo non è evidentemente una novità editoriale. Uscì in Italia poco dopo la prima edizione tedesca, nel 1964, da Einaudi, ristampato varie volte da allora come volume numero 49 della Collezione di Teatro, nella traduzione di Hansi Cominotti e con prefazione di Claudio Magris. La nuova, eccellente versione, tradotta e curata da Milena Massalongo, pubblicata da Cue Press sessant’anni dopo la prima edizione italiana, merita per molte ragioni un prolungato sguardo di attenzione. È un testo critico dotato di svariati e accuratissimi apparati. Oltre al copione con le note di scena dell’autore – e lo sforzo immaginativo richiesto a chi è eccezionalmente lettore e non spettatore per figurarsi lo spettacolo è estremamente stimolante –, sono numerosissime, dotte e acute le notazioni della curatrice, volte non solo a far risuonare nelle orecchie di chi legge la stratificazione della lingua ironica inventata da Böll, ma a situare il testo nella scrittura continua dell’intera opera del Nobel. La vera perla di questo libretto, stampato in agile formato rivista, è però la lunga, ricchissima introduzione di Massalongo, perfetta per mettere a fuoco non già l’’attualità’ di questa fantasia teatrale di Böll – anacronistica per un testo concepito oltre sessant’anni fa in un contesto storico ormai più volte radicalmente cambiato – bensì la sua profonda, innegabile contemporaneità. Un sorso di terra ci riguarda. Parla di noi, gli immaginari sommersi nella platea del teatro, cui, nella multiforme e metamorfica smania di controllo, di potere, di dominio, di possesso che dilaga, manca la terra sotto i piedi. La perdita di realtà, di quella realtà che si vorrebbe inquadrata dentro il progetto politico totalitario, di qualsiasi colore esso sia – e siamo letterariamente nel solco delle utopie negative à la George Orwell o à la Aldous Huxley, 1984 e Il mondo nuovo – non è alla fine così diversa dalla perdita di realtà che il raddoppio virtuale del mondo – leggi: «posto, dunque esisto» – oggi comporta. La salvezza sta nel residuo, nello scarto, nel resto – o (C)resto – : in quello spazio di vita incalcolabile, non progettabile, non governabile, imprevedibile e imprevisto che nutre l’ultimo fondo di umanità resistente di «un sorso di terra».

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30 Settembre 2024

I cinecomics senza la Marvel: un’insolita visione

Paolo Garrone, «Lo Spazio Bianco»

Abbiamo intervistato Alessandro Mastandrea, autore di un interessante saggio sui cinecomics, caratterizzato da precise scelte e punti di vista, che approfondiremo con lo stesso autore. Il libro è un’opera che si aggiunge a una bibliografia – in espansione – sui film tratti dai fumetti, arricchendola di alcuni spunti di riflessione non banali. In questo volume l’attenzione va esclusivamente alle opere derivate dai comics di supereroi ma si noterà come, nonostante le mode, in questo libro si accenna appena ai film Marvel, i quali non sono in alcun modo oggetto della trattazione, che si incentra invece sulle vite cinematografiche di Superman e Batman, sviscerate in modo approfondito; a concludere, un capitolo mirato sugli adattamenti degli editori indipendenti, con particolare riferimento ad autori come Alan Moore e Frank Miller. Una prospettiva originale per inquadrare questo ormai consolidato sottogenere, che ci spiegherà meglio Mastandrea in una breve ma intensa intervista.

Prima di tutto, ciao Alessandro, e benvenuto su Lo Spazio Bianco. Partiamo subito con le domande: all’inizio del libro c’è un lungo capitolo introduttivo sui comics, quasi una mini-storia della loro origine ed evoluzione con particolari riferimenti al pulp. Dal momento che non tutti i cinecomics sono così cupi, la domanda è: quale inquadramento volevi fornire con questo interessante e documentato articolo introduttivo?

Ciao Paolo e grazie per lo spazio che mi state concedendo, ne sono davvero onorato.
In merito alla tua domanda, la mia intenzione era quella di fornire – al lettore in primis, ma anche a me stesso – alcune coordinate storiche, culturali e sociologiche che chiarissero i perché dietro la nascita e la massiccia diffusione di quel peculiare fenomeno della cultura di massa che sono i comics di supereroi. Per provare, in buona sostanza, a motivarne tematiche e cliché ricorrenti, che oggi diamo per scontati. Mi riferisco, per esempio, alla propensione di alcuni di questi personaggi al vigilantismo, oppure all’utilizzo della violenza come mezzo di pacificazione o risoluzione della maggior parte degli intrecci, ponendosi, in una modalità che potremmo definire ‘reazionaria’, al di sopra e al di fuori delle garanzie costituzionali come oggi le conosciamo.
È, molto banalmente, il mio modo di pormi nei confronti di qualcosa che sto studiando e di cui voglio scrivere.
Avevo intenzione, inoltre, di inquadrare i cinecomics che tratto nel libro con i giusti riferimenti alla storia dei fumetti cui sono ispirati. Molto spesso sui giornali questi riferimenti sono riportati in maniera approssimativa, se non peggio. Concludo dicendo che le prime trasposizioni cinematografiche e televisive degli anni ’40 e ’50, non credo siano state mai trattate in precedenza.

Il taglio del tuo volume, pur agile, è ‘alto’. Riferimenti culturali accademici, linguaggio molto ricercato seppur scorrevole, c’è persino un riferimento all’esiziale teorizzazione di Walter Benjamin, fondamentale ma forse non proprio nota a tutti, per così dire. Quindi: cinecomics sì ma non solo pop?

All’interno del volume ho provato a citare più di una volta, tra gli altri, Umberto Eco (spero non a sproposito).
Nel suo Apocalittici e integrati, il semiologo torinese dedica moltissimo spazio allo studio del medium fumetto e a personaggi iconici tra i quali anche Superman. Facendolo senza alcun preconcetto ‘aristocratico’ nei confronti di un mezzo che, anche oggi, per definizione, è spesso associato alla cultura ‘bassa’. Fumetto, televisione e cinema, sino ad arrivare agli odierni social media, se inquadrati nella giusta prospettiva possono fornire a chi osserva una ‘fotografia’ dello spirito del tempo. Tutti i fenomeni della cultura di massa possono essere letti in questa duplice chiave: alta e bassa, anche quelli dai contenuti all’apparenza più banali.

Nonostante il noto disinteresse di Alan Moore, se non astio, verso gli adattamenti delle sue opere, hai dedicato diverse pagine all’argomento. Sei polemico col Bardo di Northampton o semplicemente li ritieni comunque importanti, seppur non approvati dal loro autore?

Nessun intento polemico nei confronti di Alan Moore: non ne avrei il coraggio. La scelta di non farsi accreditare nelle trasposizioni cinematografiche delle sue opere fumettistiche può lasciare interdetti, ma reputo che sia coerente con la sua figura di uomo e di autore fuori dal sistema e fuori dagli schemi. D’altro canto, è abbastanza noto quanto siano stati travagliati i rapporti tra lui e le Big Two statunitensi dei comics. Una sorte non dissimile da quanto capitato a Frank Miller, scottato dall’esperienza avuta con l’industria Hollywoodiana, ai tempi di Robocop 2. Quello dei rapporti ‘difficili’ tra autori (registi o fumettisti che siano) e industria culturale statunitense è un problema ricorrente e ampiamente dibattuto. Mi interessava, perciò, darne conto, sia in ottica generale che attraverso le opere e le trasposizioni di questi due autori emblematici.
Inoltre, in particolare per Frank Miller, questa sua ossessiva ricerca di una trasposizione totalmente e incondizionatamente fedele al ‘prevenduto’ fumettistico, è stata lo spunto per pormi alcune domande in merito al dibattito circa la fedeltà dell’opera cinematografica rispetto a quella fumettistica. 
È in tale contesto che ho provato a prendere in prestito le parole di Walter Benjamin e del compianto Mario Perniola, mio professore ai tempi dell’università. Credo non si potesse prescindere dall’utilizzare gli strumenti forniti dall’estetica per analizzare questo fenomeno.

Ultima domanda, a proposito di una tua scelta, a parere di chi scrive, coraggiosa: un libro sui cinecomics che accenna appena ai film del Marvel Cinematic Universe. Ci spieghi le motivazioni di tale peculiare selezione?

Effettivamente, quella che mi fai è la domanda delle domande. La mia intenzione era quella di arrivare sino ai giorni nostri, ma proseguendo nella scrittura del libro ho cominciato a maturare l’idea che forse, questa scelta, non aveva troppo senso e che il saggio avrebbe perso in compattezza.
Ho preferito, dunque, concentrarmi sui due personaggi più iconici dell’intero universo supereroistico, gli archetipi di tutto quello che è venuto dopo, oltre alle trasposizioni di Moore e Miller di cui abbiamo parlato. Queste, a mio avviso – concedimi una sintesi un pochino approssimativa –, pur rientrando a pieno titolo nelle pratiche industriali dei blockbusters, conservano due elementi che ritengo fondamentali: il primo è che, spesso, tali pellicole si inseriscono a pieno titolo nella ‘poetica’ dei registi che le hanno dirette, come nei casi di Burton e Nolan; in secondo luogo, la loro prassi realizzativa e industriale, pur aderendo a logiche di sfruttamento di un franchise, non ha raggiunto il livello quasi ingegnerizzato come avviene oggi con l’MCU.
Penso inoltre che l’MCU debba essere indagato con altri strumenti rispetto a quelli che ho utilizzato in questo saggio, perché, a mio modesto parere, l’elemento industriale e finanziario costituito dalla Disney abbia un ruolo preponderante in questa analisi.

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Alexander moissi
26 Agosto 2024

Alexander Moissi. Grande attore europeo (1879-1935)

Francesca Simoncini, «Drammaturgia»

Il libro di Massimo Bertoldi Alexander Moissi. Grande attore europeo (1879-1935), dedicato alla biografia artistica di Alessandro Moissi, ha il grande merito di colmare, con profondità e rigore storiografico, una lacuna della storia del teatro. Attore ‘scomodo’, difficilmente inquadrabile, ritenuto tra i più grandi dai suoi contemporanei, Moissi non era stato finora oggetto di un completo ed esaustivo studio monografico in grado di illuminarne pienamente il valore, ma soprattutto la complessità e le originali doti e caratteristiche.

Nato a Trieste nel 1879, Moissi fin da piccolo attraversa ripetutamente i confini europei compiendo spostamenti che lo portano a dimorare in varie città. Oltre alla città natale, dalla peculiare cultura mitteleuropea, anche Durazzo e Vienna, a cui si aggiungono presto altre capitali come Praga e Berlino. I numerosi viaggi, i cambi ripetuti di residenza, un destino esistenziale che lo caratterizza fin dai primi anni di vita come apolide, lo portano a cimentarsi nell’uso di un flessibile plurilinguismo (italiano, greco e albanese, tedesco) e a sviluppare non comuni capacità di adattamento e di duttilità che lo accompagneranno anche nell’esercizio del mestiere.

Dopo aver frequentato il Conservatorio a Vienna, con l’intenzione di diventare un cantante d’opera, si avvia al palcoscenico del teatro di prosa recitando al Burgtheater, dove viene notato per la melodiosità della sua voce e per la sua personalità scenica, ancora acerba e resa imperfetta da una pronuncia con forti inflessioni italo-venete, ma già originale e potente. Il tirocinio formativo compiuto a Praga ne fortifica le doti espressive, ma è a Berlino che Moissi trova la sua maturità professionale, soprattutto grazie al fondamentale incontro con Max Reinhardt che ne riconosce talento e potenzialità. Con il regista austriaco instaura un forte e duraturo sodalizio artistico che gli permette di perfezionare e disciplinare le sue già forti doti espressive, simili per caratteristiche a quelle dei Grandi Attori del teatro italiano a lui contemporaneo, mache Moissi sa mettere al servizio dei dettami di una regia in Italia ancora balbettante e in Europa ormai compiutamente affermata.

Le ‘costrizioni’ imposte dalle direzioni sceniche dei registi a cui presta il proprio talento gli negano probabilmente la libertà di azione e di creazione scenica ancora concessa ai nostri Grandi Attori nazionali, ma aggiungono rigore e disciplina al suo stile recitativo che riesce comunque a mantenere forti caratteri di originalità e che lo porta a diventare attore capace di rivelare l’intima essenza dell’animo umano, declinata principalmente in senso passionale, lirico e decadente.

Il libro di Massimo Bertoldi sa raccontare con chiarezza espositiva e continuo ricorso a fonti dirette (soprattutto di lingua tedesca) tutte le fasi del singolare e complesso percorso artistico di questo originale e bravo attore che, per cultura, vicende esistenziali e soggettive caratteristiche, si colloca in una peculiare dimensione liminare, decisamente al di là di ogni ‘confine’, sia geografico sia storiografico, ma che, nonostante tutto, riesce comunque a compiere una straordinaria, fertile e quasi miracolosa sintesi tra prassi teatrali tra loro per definizione ritenute inconciliabili: il teatro d’attore di tradizione italiana, ancora resistente nel nostro Paese, e il teatro di regia europea di inizio Novecento.

Il libro divide in due parti la trattazione dedicando la prima a una ordinata ricostruzione cronologica delle fasi biografiche e artistiche dell’attore, la seconda a una approfondita analisi delle sue più importanti e celebri interpretazioni. Ne scaturisce un ritratto articolato e completo che attribuisce giusto valore a uno dei più interessanti protagonisti del teatro di prosa europeo di fine Ottocento e primo Novecento. Arricchiscono e completano il saggio l’intervento di Leonardo Quaresima su Moissi e il cinema, una bella sezione iconografica, dedicata a ritratti significativi dell’attore, e le utili Appendici che riassumono in schematica sintesi i fatti salienti della vita e dell’arte di Moissi rendendo conto del suo complesso repertorio e fornendo brevi biografie dei principali attori e registi con cui l’attore ha collaborato nel corso della sua esistenza.

La premessa al libro di Siro Ferrone, oltre a fornire al lettore le corrette coordinate di lettura del saggio, svela come con questo libro Massimo Bertoldi riesca a ‘riempire un vuoto’ della storiografia del teatro, costretta ora a fare i conti con la storia di una vita artistica eccezionale che riesce a trovare una sua sofferta e significativa dimensione nonostante l’attraversamento di contesti e prassi teatrali tra loro considerate agli antipodi. L’esperienza di Alexander Moissi, così correttamente raccontata e così in bilico tra teatro d’attore e teatro di regia, apre infatti interrogativi fondamentali per lo storico del teatro e fornisce ulteriori basilari indicazioni sulle conseguenze artistiche determinate dalla inevitabile conflittualità esistente tra l’arte di un attore-creatore e le coercitive direttive di una sempre più predominante, e soffocante per l’attore, supremazia registica. 

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Età dell'innocenza
20 Agosto 2024

L’età dell’innocenza

Stefano Locati, «Film TV», XXXII-34

Il fiume del cinema

«In quasi vent’anni in cui sono stato ospite di svariate manifestazioni all’estero è maturata in me una nuova consapevolezza, ovvero che la storia del cinema non è ancora finita. Ben cento anni di produzioni cinematografiche mi hanno preceduto, e quel grande fiume se così mi è concesso definirlo è ben lungi dall’esaurirsi. Dal mio punto divista, molto probabilmente continuerà a scorrere anche in futuro, pur adattandosi ai tempi che verranno. Chi come me ha vissuto la propria giovinezza negli anni ’80 credendo in modo del tutto plausibile che ormai il cinema non avesse più nulla da raccontare, si chiede ancora se le opere che produce possano davvero essere etichettate come cinema. Personalmente mi pongo sempre questo quesito. Tuttavia, devo ammettere che lo strano senso di colpevolezza che mi affligge è come se volesse tramutarsi in una goccia di quello stesso fiume».

Capire chi documenta

«Qualcuno ha affermato che i documentari hanno il compito di raccontare la verità attraverso i fatti: questo concetto mi è stato ripetuto infinite volte quando lavoravo in televisione, anche se quando mi trovavo sul set mi rendevo conto che parole quali fatti, verità, neutralità o imparzialità altro non erano che termini privi di un vero e proprio contenuto. Piuttosto, definirei un documentario una tra le tante interpretazioni possibili della realtà, proprio come mi disse Ushiyama Jun’ichi (1930-1997), regista e produttore per l’emittente Nippon Television Network. Stando alle sue parole: ‘Il segreto non è tanto documentare i fatti, quanto piuttosto capire chi li documenta’, affermazione sulla quale non posso che trovarmi d’accordo».

Cinema e giudizi etici

«Al festival di Cannes feci quasi ottanta interviste per Nobody Knows e tra i commenti che ricordo con maggiore intensità ci fu quello di un giornalista che affermò: ‘Lei non esprime mai un giudizio etico sui personaggi del film. Nemmeno per la madre che ha abbandonato i figli’. Ricordo di avere risposto nei seguenti termini: ‘Non si fanno film per condannare le persone, e un regista non è né un giudice, né tantomeno dio. Se avessi fatto ricorso a personaggi malvagi, di sicuro sarebbe stato molto più semplice seguire la storia. Tuttavia, andare nella direzione opposta penso dia la possibilità agli spettatori di tornarsene a casa facendo propria la vicenda’. Nonostante gli anni, oggi la penso allo stesso modo».

Ozu e Naruse

«Al fine di acquisire maggiori conoscenze tecniche in ambito di regia, prima di girare Still Walking mi riguardai svariate volte le opere di Naruse Mikio (1905-1969). Dal punto di vista delle inquadrature, per esempio, se è vero che Ozu Yasujiro (1903-1963) aveva l’abitudine di riprendere di fronte, se si osservano con attenzione le scene di Naruse, si nota come fosse solito indirizzare la camera in direzione dell’oggetto ripreso. Non che ci fosse una grossa differenza, ma grazie a questa tecnica gli interni delle case in stile tradizionale, ad esempio, apparivano del tutto diversi. Difatti, grazie alle sue prospettive, Naruse riusciva a riprendere con estrema nitidezza gli interni e la posizione degli arredi garantendo altresì una certa libertà di movimento agli attori: nei film di Ozu, invece, appare sempre difficile per lo spettatore farsi un’idea degli spazi scenici».

Terra di confine

«Dal punto di vista di chi ha cominciato la propria carriera come documentarista, sono cosciente del fatto che i film non nascono semplicemente da noi stessi, quanto piuttosto da quella terra di confine che esiste tra il mondo esterno e il nostro io; se poi pensiamo che tutto è mediato dalla presenza di una macchina da presa è davvero straordinario. In particolare, nel caso dei documentari, si parte proprio dal presupposto che non si gira mai per sé stessi, ma per raccontare il mondo, ed è qui che si rintracciala differenza più vistosa rispetto al cinema».

Festival del cinema

«Dopo Cannes, in ordine di importanza c’è il Festival internazionale del cinema di Berlino […]. La terza manifestazione in ordine di importanza è la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nata nel 1932, e alla quale ho partecipato in più di un’occasione. È di certo il festival più longevo al mondo e si svolge […] presso il Lido di Venezia in un’atmosfera rilassata, lontano dal caos turistico della famosa città lagunare. Tuttavia, poiché è un po’ ostico da raggiungere e attira opere con un contenuto più estetico, ricordo che nel 2002, per esempio, registrò un’affluenza piuttosto scarsa da parte dei buyer cinematografici. […] Per ciò che concerne la storia, poiché nel 1951 Akira Kurosawa ottenne il Leone d’oro con Rashomon, in Giappone è ancora considerato il festival per eccellenza. Ciononostante, sebbene rientri nelle tre manifestazioni più storiche in ambito europeo, bisogna altresì ammettere che di recente attira meno attenzione (anche in termini di affluenza) rispetto a Cannes e Berlino».

Le sfumature e i critici

«Di norma non riesco mai a mettere a fuoco il tema di un film prima di girarlo, poiché nella stragrande maggioranza dei casi emerge man mano che aggiungo dettagli. Si tratta di qualcosa che percepisco a livello personale e che spesso non mi va di esternare a parole durante le interviste dato che coinvolge il mio mondo e le mie convinzioni personali. A mio avviso, verbalizzare il tema di un film può comportare la perdita di alcune sfumature che magari non riesco a percepire nemmeno io; al contrario, sono molto lusingato della presenza dei giornalisti e dei critici durante le conferenze stampa poiché, a differenza mia, sono in grado di coglierle in piena autonomia senza dovermi chiamare necessariamente in causa».

Il cinema di Koreeda Hirokazu. Memoria, assenze, famiglie

Per integrare le parole di Kore-eda raccolte in Pensieri dal set è fondamentale la complessa analisi di Claudia Bertolé, studiosa di cinema giapponese, tra le firme storiche del blog «Sonatine» e collaboratrice di «Cineforum». Il volume è diviso in due parti. Nella prima, Bertolé analizza tematicamente e stilisticamente il cinema di Kore-eda, tracciando con acume i sottili fili di continuità che legano tutte le sue opere. Nella seconda presenta analisi puntuali e stratificate di tutti i suoi film, dagli esordi nel documentario fino a Le buone stelle – Broker (2022). I punti di forza sono una scrittura appassionata, capace di tenere insieme l’analisi generale e quella più puntuale di singole scene chiave, e la profonda conoscenza del contesto giapponese, che non presenta Kore-eda come una monade a sé stante, ma lo colloca in un orizzonte storico e cinematografico più ampio.

Patrice pavis
22 Luglio 2024

Le teorie teatrali: un campo minato, se i vari approcci diventano troppi. Solo lo spettatore è il vero personaggio

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Nel 1988, l’Editore Zanichelli pubblicò di Patrice Pavis Dizionario del teatro, a cura di Paolo Bosisio, con cui l’autore cercava di dare delle risposte non solo a chi lavorava in ambito teatrale, ma anche al frequentatore di teatro. Si distingueva da altri dizionari per una qualità scientifica del materiale trattato che si estendeva, in particolare, dal campo della semiotica a quello della linguistica, dei fondamenti teorici e della drammaturgia, non bisognava, pertanto, lasciarsi ingannare dall’ordine alfabetico, dato che ogni lemma conteneva un apparato specifico di ricerca.


L’indice tematico era stato diviso in otto categorie, così distribuite: Drammaturgia, Il testo e il discorso, L’attore e il personaggio, I generi e le forme, Le messinscene, I principi strutturali e Le questioni estetiche, La ricezione dello spettacolo.
Come si può capire, si trattava di un enorme materiale che adesso ritorna, in forma saggistica, nel volume, pubblicato da Cue Press, L’analisi degli spettacoli. Teatro, Mimo, Danza, Teatro-Danza, Cinema, a cura di Dario Buzzolan e Roberta Cortese.


Pavis è stato Professore del Dipartimento di Studi Teatrali dell’Università di Parigi, oltre che un assiduo frequentatore come spettatore dei teatri parigini, non per nulla, in questa nuova rielaborazione delle sue ricerche, lo spettatore diventa un vero e proprio personaggio.


Il volume è diviso in tre parti: Le condizioni dell’analisi, Le componenti della scena, Le condizioni della ricezione, all’interno delle quali egli sviluppa non solo concetti, ma anche categorie come spazio-tempo-azione, oltre che una attenta analisi dei materiali della rappresentazione, visti in un continuo rapporto tra testo e messinscena, ai quali fa seguire gli ‘approcci’ agli spettacoli che possono essere di tipo psicologico, psicoanalitico, sociologico, antropologico, senza mai dimenticare il punto di vista dello spettatore, a cui pone una domanda: «A che cosa era dovuta la letterarietà di un testo, nel passato?», a cui fa seguire la risposta: «Alla assenza della pratica scenica», quella che conoscevano i Comici dell’Arte, Shakespeare, Moliere, Goldoni e, in tempi più recenti, perché diventati Direttori di Teatro: Strindberg (Intima Teater), Pirandello (Teatro d’Arte), Eduardo (Teatro San Ferdinando), Dario Fo (Teatro La Comune).


C’è da dire che la pratica scenica, nel terzo millennio, si è arricchita con nuovi metodi esplorativi, tanto che si sono moltiplicate le teorizzazioni, in particolare quelle che ‘teorizzano il nulla’, ovvero spettacoli che hanno poco a che fare col teatro, così come si sono moltiplicate le metodologie d’approccio al linguaggio della scena. Non dobbiamo, nel frattempo, dimenticare che le teorie teatrali siano un campo minato, perché sottoposte a molteplici discipline, da quella semiologica che, a suo tempo, fece anche dei danni, avendo ridotto tutto alla interpretazione, tanto che fu sostituita da altri approcci che facevano capo alle scienze sociologiche o psicologiche che contribuirono alla conquista di risultati di vario genere.


Patrice Pavis sostiene che ogni componente dello spettacolo andrebbe esaminata in sé, per capire meglio come avvenga la trasmissione col corpo dell’attore, con i suoi flussi pulsionali, con le sue espressioni fisiche, con le sue intensità percettive. Per Pavis, la messinscena è, in fondo, un metatesto che contiene, nel suo interno, un insieme di sistemi con i quali organizza materiali diversi, magari per raggiungere risultati unitari, In tal modo, la scena si assoggetta a contesti variabili, a molteplici codici interpretativi, proprio perché si allea con le altre discipline.


A questo punto, ne risente il pensiero critico che, se in un primo momento aveva accettato, come metodologia d’approccio, la semiologia, in un secondo momento, con l’affermazione del post-moderno, decise di sperimentare altre categorie a vantaggio della materialità del teatro. A tal proposito, Pavis estese un questionario che riguardava le caratteristiche della messinscena, la strutturazione dello spazio, gli effetti della ricezione, il rapporto testo-corpo, le caratteristiche delle traduzioni, degli adattamenti, delle riscritture, infine, il ruolo dello spettatore.

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Balasz
11 Luglio 2024

Béla Balázs, dall’arte del teatro alla guerriglia teatrale

Ilona Fried, «Criticai Lapok», XXXIII-5-6

Eugenia Casini Ropa è una delle più autorevoli studiose dell’arte della danza in Italia, fondatrice e docente del primo corso di storia della danza e del mimo, istituito nel 1992 al DAMS di Bologna. Nel corso delle sue ricerche, che riguardano più in generale la storia del teatro, si è dedicata anche a quella forma particolare definita come teatro Agitprop e al suo linguaggio politico. Nell’ambito di tali interessi ha raccolto e curato gli scritti di uno dei maggiori protagonisti di questa corrente, l’ungherese Béla Balázs, una ricerca di prima mano pubblicata nel lontano 1980 e recentemente ristampata dalla innovativa casa editrice Cue Press con una nuova breve prefazione da parte della curatrice. 

Béla Balázs è una delle personalità di spicco della cultura di sinistra ungherese della prima metà del Novecento, ben noto anche in Italia per i suoi studi teorici sul cinema, ma le ricerche di Eugenia Casini Ropa presentano scritti per lo più sconosciuti fino all’uscita di questo volume, quelli in cui Balázs compare nelle vesti di teorico e di organizzatore del teatro operaio. Gli articoli e i saggi qui raccolti risalgono agli anni Venti e coincidono con il periodo dell’emigrazione austriaca e tedesca di Balázs: essi costituiscono tuttora una vera novità anche per gli studiosi. Come scrive Casini Ropa, nei testi raccolti nel volume «emerge con grande chiarezza il suo [di Balázs] tentativo, ideale, teorico e pratico, di far coesistere i principi estetici del marxismo coevo con una visione dell’arte del tutto personale, per ‘recuperare l’ipotetica incontaminata matrice originaria su cui fondare l’evoluzione di una nuova idea di teatro’».

Il prezioso volume è corredato da una bibliografia stimolante per ricerche future, completa anche di riferimenti alle fonti ungheresi di e su Balázs, indicazioni che però fino ad oggi non sembrano essere state raccolte dagli specialisti, come la studiosa deve con rammarico costatare nella più recente prefazione, compilata a quarant’anni di distanza dalla prima edizione del suo volume.

La prefazione del 1980 contiene una presentazione della vita e della carriera di Balázs, oltre che una sintesi della sua opera di teoria e di pratica del teatro. Per comprendere la formazione dell’autore Casini Ropa segnala come fonte essenziale il romanzo autobiografico La giovinezza di un sognatore, pubblicato a Budapest nel 1946. Nato a Szeged nel 1884, Balázs trascorse un’infanzia povera e una giovinezza non facile a causa della morte prematura del padre, uomo di grande talento che tuttavia per il suo carattere ribelle non era riuscito a realizzare le sue aspirazioni ad una carriera accademica. Oltre alle difficoltà familiari Balázs subì anche pregiudizi per la sua origine ebraica. Da giovane cominciò a pubblicare poesie; malgrado i problemi economici della famiglia, si iscrisse all’università di Budapest, dove conseguì la laurea in lettere con risultati brillanti. Fece viaggi di studio a Berlino e a Parigi e così ebbe modo di venire a contatto con la più aggiornata cultura europea. L’esperienza deludente come insegnante gli fece cambiare idea, non volle più seguire le orme del padre e scelse di dedicarsi al giornalismo, alla poesia, al teatro.

Il dramma su una donna emancipata, Il dottor Margit Szélpál del 1909, venne rappresentato al Teatro Nazionale di Budapest e ne scrisse una recensione un giovane critico, l’amico György Lukács. Dalla collaborazione di Balázs con Zoltán Kodály e Béla Bartók, fu all’origine dei libretti de Il principe di legno e de Il castello del principe Barbablu, che riflettono mitiche e simboliche tradizioni popolari che influenzarono lo scrittore così come i suoi giovani amici musicisti. Per un breve periodo prese parte alla prima guerra mondiale come volontario e si avvicinò alle idee socialiste; nel 1918 divenne membro del partito comunista ungherese. Per il ruolo ricoperto nella Repubblica dei soviet di Béla Kun, venne condannato a morte in contumacia e dovette nascondersi fino a quando non riuscì a emigrare. 

Data la sua perfetta padronanza del tedesco, lingua in cui scrisse tutte le opere composte fuori dalla madrepatria, la prima tappa fu Vienna, dove ebbe incontri proficui con il giovane cinema della capitale austriaca e dove svolse attività giornalistica collaborando principalmente con «Der Tag». In questo periodo pubblicò anche alcune monografie, come La teoria del dramma, e poi nel 1924 quello che divenne un saggio fondamentale, L’uomo visibile o la cultura del film, secondo Casini Ropa «prima opera di estetica cinematografica nel mondo e ancor oggi imprescindibile». Nel frattempo continuò a scrivere e a pubblicare poesie, prose e fiabe. Nel 1926 Balázs si trasferì a Berlino, in un clima fervido di speranze per una rivoluzione sociale. Il periodo berlinese appare come quello più «interessante e problematico, di più intensa e spesso folgorante intuizione teorica e di più immediata benché a volte inadeguata o contraddittoria sperimentazione pratica, come il punto di più alta tensione utopica e di più pregnante dialettica interna di tutto il pensiero e la produzione di Balázs».

A questi anni fino al 1931, quando si trasferì a Mosca, risalgono le sue collaborazioni a organizzazioni culturali di sinistra; sono note le sue vicende in campo cinematografico, fu membro del direttivo dell’Associazione popolare per l’arte cinematografica (Volksverband für Filmkunst) presieduta da Heinrich Mann, scrisse contributi per periodici specializzati e partecipò nella veste di sceneggiatore alla produzione di film. Arricchì anche le sue teorie sul cinema, pubblicando un nuovo testo teorico, Lo spirito del film (tr. it. Estetica del film, Editori Riuniti, Roma 1954, con varie riedizioni). 

Casini Ropa mette però anche in luce come il periodo berlinese fosse decisivo per l’incontro e il successivo apporto di Balázs all’innovazione in atto nell’ambito teatrale. Qui egli venne subito in contatto con le sperimentazioni d’avanguardia dei gruppi del teatro operaio, gruppi formati da dilettanti sotto l’egida sindacale o dei partiti di sinistra. Come afferma la studiosa, «questi gruppi a struttura collettiva, impegnati in un teatro satirico o didascalico dalle forme semplici e immediate, attraverso il quale diffondere e promuovere la coscienza di classe del proletariato, andavano in quegli anni crescendo straordinariamente in numero e in impegno politico sotto la spinta dell’avanzata della KPD. Alla guida di uno di essi, «Die Ketzer» (Gli eretici), Balázs iniziò la sua esperienza di teatro militante, che sarebbe cessata solo con la sua partenza dalla Germania, scrivendo e adattando testi, partecipando al lavoro collettivo del gruppo e guidandone le scelte culturali». Il numero dei gruppi teatrali comunisti cresceva per l’impulso alla campagna di agitazione e propaganda promossa dalla KPD e anche come risultato della tournée del gruppo sovietico «Bluse Blu». Numerosi tra questi gruppi aderirono alla Lega del teatro operaio tedesco, l’ATBD, di cui Balázs venne nominato direttore artistico, carica che coprì fino al 1930. Intanto pubblicò anche contributi teorici importanti sull’organo della Lega, saggi che ora si trovano raccolti nel presente volume. Oltre a dedicarsi all’attività del teatro operaio Balázs scrisse saggi e articoli più in generale sul teatro contemporaneo, che apparvero prima di tutto su «Die Weltbühne», di cui Casini Ropa pubblica alcuni tra quelli più significativi. 

Nella produzione drammaturgica Balázs cercò di assolvere il compito di esprimere la «coscienza collettiva del proletariato» e di «riflessione di classe», i cui risultati più importanti si possono cogliere in I muri del Père Lachaise del 1928 (sulle cause della disfatta della Comune di Parigi) e in Uomini sulla barricata del 1929 (sulla lotta dell’Armata rossa durante la rivoluzione sovietica). «Lo stile fortemente realistico, semplice e didascalico, non cancella del tutto la passione di Balázs per le vicende dell’anima individuale e i suoi personaggi mantengono, al di là della loro connotazione di classe e di condizione sociale che li rende simbolici, il pulsare profondo di un’individualità…». L’opera piacque a molti, fra gli altri a Erwin Piscator. Balázs aveva infatti collaborato fin dai tempi della fondazione nel 1927 al collettivo di scrittura teatrale Piscator-Bühne. Fra le sceneggiature create da Balázs si evidenzia la «fiaba teatrale» Hans Urian va in cerca di pane del 1929, non solo un astratto tentativo di adesione a quella progettualità d’avanguardia, ma frutto della sua personale teorizzazione e quindi da considerarsi concreto esempio della creazione di un teatro per ragazzi proletari.

Nello stesso tempo era vivo per Balázs anche l’interesse per il teatro musicale, l’opera e il balletto. Significativi di questa vastità di interessi che superava l’esclusiva attività cinematografica e teatrale, e perciò degni di nota sono i suoi contributi ai dibattiti culturali e alla critica letteraria contemporanea. La studiosa definisce come «sfida all’Oggettività» il romanzo del 1930, Uomini impossibili, che vede Balázs ormai nella piena maturità dei suoi strumenti espressivi. 

Appressandosi la minaccia del nazismo, nel 1931 Balázs si trasferì a Mosca e vi rimase fino al 1945, un periodo del quale si hanno ben scarse notizie. Tornò in Ungheria nel 1945 e negli anni precedenti all’instaurazione del regime comunista svolse un’intensa attività culturale: gli fu affidata una cattedra all’Accademia di arte drammatica e cinematografica, tenne la direzione dell’Istituto di scienza cinematografica, partecipò a film di spicco della rinascente cinematografia magiara di quegli anni, tra cui E’ accaduto in Europa (Valahol Európában) di Géza Radványi del 1947. Anche se nel 1948 gli venne assegnato il premio Kossuth, i suoi rapporti con le istituzioni in quel periodo divennero sempre più difficili. Possiamo aggiungere che il radicale cambiamento politico e culturale, l’attacco da parte del Partito comunista ormai al potere nei confronti di Lukács, creò probabilmente anche per Balázs un clima poco favorevole. 

Fu però in quegli anni che vide «la diffusione dell’ultima, più elaborata e completa sistemazione riassuntiva della sua teoria cinematografica; il volume tradotto e ben noto in Italia col titolo Il film: essenza ed evoluzione di un’arte nuova, Torino, Einaudi 1952», seguita da altre edizioni. Risale al 1948 l’edizione tedesca del già citato romanzo autobiografico La giovinezza di un sognatore, mentre quella ungherese era uscita del 1946. La sua ultima opera teatrale diffusa in tedesco mentre egli era ancora in vita, risale al 1946, Amore terreno e amore celeste, concepita ed elaborata durante il periodo russo.

La seconda parte dell’introduzione di Eugenia Casini Ropa tratta delle teorie di Balázs, legate a un preciso momento storico e culturale, ricco di fermenti e di novità quale fu la Repubblica di Weimar, in cui l’autore sviluppa le sue idee sul «teatro come arma», il teatro inteso come espressione artistica e politica per una società migliore.

«Lo strumento teatrale, questa l’idea di fondo di Balázs come critico, mezzo di comunicazione di insostituibile efficacia, deve essere usato politicamente secondo le intenzioni e i bisogni della nuova classe proletaria che cresce ogni giorno di più in forza sociale e in consapevolezza. Compito dell’arte in generale e di quella teatrale in particolare è stimolare e diffondere l’autocoscienza e la coscientizzazione politica della classe che secondo le speranze del momento, stava inevitabilmente per prendere il sopravvento».

Sostiene ancora Casini Ropa: «Nessun altro come lui ha saputo penetrare e trasmettere la tensione etica e la carica utopica ambiguamente sprigionata nel mondo weimariano dai numerosissimi piccoli gruppi di dilettanti proletari in cui egli salutava infine la nascita tanto attesa di un teatro ‘originario’ fondato realmente da e nel suo pubblico, dove vedeva rinnovarsi l’antico principio dionisiaco. Fulcro e motore di questa auspicata rinascita teatrale, in cui cogliamo i frutti dei semi gettati nella Teoria del dramma e che si presta oggi a essere letta in trasparenza come progetto di una vera e propria utopia teatrale e politica al tempo stesso, è per Balázs l’attore-operaio, autore e interprete del suo teatro».

Casini Ropa rintraccia le posizioni utopiche e fideistiche radicalizzanti delle idee di Balázs e allo stesso tempo anche i momenti di «profonda consapevolezza storica» delle difficoltà che emergevano. 

«Il lavoro creativo collettivo – e Balázs continua a chiamarlo arte – con cui il gruppo aspirava a fondere l’individuo nel collettivo, a eliminare il gioco gerarchico dei ruoli, a evitare ogni precisa specializzazione dei suoi membri, riappropriandosi insieme e comunitariamente dei mezzi di produzione, era un principio irrinunciabile dell’Agitprop, che esprimeva in esso la sua tensione utopica verso un mondo nuovo di vivere nel presente, una collettività sociale di abolire l’individualismo borghese, la divisione in classi e la parcellizzazione del lavoro. Ma nella prassi numerose erano le ambiguità rispetto al progetto e spesso la teoria doveva soggiacere alla necessità; così continuavano soprattutto ad esistere gli scrittori di professione – Balázs era uno di essi che lavoravano per il teatro operaio e a cui si lanciavano addirittura appelli per nuovi testi, e c’era spesso chi fungeva da regista e così via», afferma Casini Ropa. 

Il teatro operaio subì già nel 1929 leggi restrittive che imposero ai gruppi la clandestinità e infine nel 1931 li dichiararono fuori legge. Le compagnie più forti fecero passi verso la professionalità e così poterono sopravvivere, ma dopo l’ascesa del nazismo, nei primi mesi del 1933, tutte le voci di sinistra vennero spente. Alcuni gruppi, così come quello cui apparteneva Balázs, «Gli eretici», scelsero la clandestinità e misero in atto una vera e «propria guerriglia teatrale rapida, decisa e inafferrabile.» Questa era una comunicazione di strada, non più teatro istituzionalizzato. «I passanti delle vie di centro dove un finto (ma assai spesso vero, in realtà) disoccupato fingeva di svenire, attirando un capannello e suscitando discussioni amare o gli spettatori di innocui spettacoli filodrammatici di periferia ironicamente e violentemente contestati da attori-operai infiltrati fra di loro, venivano loro malgrado coinvolti nel gioco, facendosi inconsapevolmente attori di un’azione ‘teatrale’ del tutto nuova e spontanea. Un ‘teatro’ che per poter assumere questo nome ha preteso ancor oggi un allargamento semantico del termine e di conseguenza una revisione dell’ideologia che gli era sottesa».

Balázs tanti anni dopo, poco prima della morte sopraggiunta a Budapest nel 1949, ricordava con nostalgia non tanto gli ideali che avevano dato vita a quel teatro, quanto le sperimentazioni di animazione collettiva che da esso erano scaturite.

Così la studiosa conclude: «Coerentemente, e diversamente da quanto faranno in seguito tanti protagonisti di quei giorni, è questo lavoro oscuro e senza gloria il teatro che Balázs ricorda come l’esperienza ‘la più profonda, la più pura, la più sana’, come quel teatro che ‘voleva cambiare il mondo’ e la sua orgogliosa commozione è l’ultimo riconoscimento di quel generoso slancio utopico che sostanziava nel teatro una diversa qualità della vita».

Eugenia Casini Ropa aveva pubblicato la raccolta degli scritti di Balázs nel 1980 come invito a ulteriori studi e approfondimenti, un auspicio che però era destinato a restare tale. E’ quindi da accogliere positivamente la riproposta di un volume che ancor oggi conserva la sua attualità.

La studiosa per l’edizione del 2023 ha lasciato il volume inalterato aggiungendo solo una breve prefazione nella quale fra l’altro sostiene:

«Integro, senza nuove interpretazioni più scientemente contemporanee, il volumetto può apparire oggi quasi commovente, soprattutto per chi abbia vissuto il periodo – gli anni Settanta del secolo scorso – in cui è stato concepito. Il fervore di pensiero e di sperimentazione che animava allora gli studi e le scene teatrali, abbattendo gli argini della tradizione, invadendo gli spazi del vissuto, trasformando l’esperienza teatrale in autopedagogia individuale e di gruppo e proponendosi addirittura come esempio di una diversa modalità di vita, è oggi difficilmente immaginabile, pur se alcune rivoluzionarie conquiste di allora sono state acquisite e integrate nella pratica performativa. Quella metamorfosi dell’idea stessa di teatro era ovviamente figlia dell’epoca, anni in cui, nel bene e nel male, circolavano a tutti i livelli la passione e l’impegno sospinti dal vento delle ideologie e delle utopie, le lotte e le conquiste sociali erano all’ordine del giorno e il pensiero divergente e la creatività venivano stimolate persino nelle scuole proprio attraverso l’animazione teatrale. Il teatro poteva essere uno strumento trasformativo e gli studi storiografici, allora in pieno e originale sviluppo nel nostro paese, ricercavano anche nel passato eventi e atmosfere esemplari, consonanti con le urgenti tensioni che li muovevano. Così è nato, tra molti altri, anche questo volume e se oggi, dopo quattro decenni, il suo spirito, la sua scelta dei testi originali e la loro interpretazione possono apparire tendenziosi e ingenui al tempo stesso, è perché è specchio fedele del suo tempo e anche di quel tempo offre uno spaccato in veste di pensiero teatrale.

Riproporlo ai nostri giorni, quando la storia viene negata, l’ideologia e l’utopia sono politicamente scorrette e la passione latita intorno a noi, può forse sconcertare o divertire qualcuno, ma forse far riflettere e pungolare molti altri».


Fellini mastroianni logbook
4 Luglio 2024

La voce dei protagonisti

Storie e parole dei grandi maestri dello spettacolo

Cue Press è lieta di presentare la sua serie esclusiva di pubblicazioni, un tributo immersivo ai grandi protagonisti del cinema e del teatro. Queste opere rappresentano una collezione preziosa di interviste e scritti di prima mano direttamente dalle menti e dai cuori degli artisti che hanno plasmato l’industria dello spettacolo nel corso dei decenni.

Ogni volume offre un insight autentico e diretto sulla vita e sulla carriera di alcuni degli attori, registi e figure più influenti nel mondo dello spettacolo. Le interviste raccolte in queste serie coprono un’ampia gamma di argomenti, dalle esperienze personali degli artisti alle loro riflessioni sulle tendenze attuali nell’industria cinematografica e teatrale. È un viaggio emozionante attraverso le passioni, le sfide e i successi che hanno caratterizzato le loro straordinarie carriere.

Ma non è tutto. Oltre alle interviste, molti volumi includono anche articoli, saggi e discorsi scritti direttamente dagli stessi artisti. Questi testi offrono una prospettiva unica su questioni culturali, sociali e artistiche, arricchendo ulteriormente la comprensione dell’arte e dell’intrattenimento.

La serie di Cue Press non si limita a celebrare le leggende del cinema e del teatro, ma si impegna anche nella conservazione della memoria storica di queste personalità e delle loro opere. È un omaggio vivo e sentito alle voci che hanno definito e trasformato l’industria dello spettacolo.

Per gli appassionati di cinema, teatro e cultura in generale, questa serie rappresenta un’occasione preziosa per approfondire la propria conoscenza e per connettersi con le menti creative che hanno influenzato e ispirato generazioni di spettatori in tutto il mondo.

Unisciti a noi in questa sorprendente esplorazione delle voci del cinema e del teatro. Scopri le storie dietro le storie, immergiti nelle esperienze personali e professionali di coloro che hanno trasformato il nostro modo di vedere e comprendere l’arte dello spettacolo.

Visita il nostro sito per scoprire di più e per essere parte di questa avventura unica nel suo genere. Cue Press: dove le storie prendono vita, una pagina alla volta.

15 Febbraio 2024

Carrozzeria Orfeo, quindici anni di successi ben c...

Andrea Malosio, «Hystrio», XXXVII-2

Quindici anni, un tranche de vie significativo per un’impresa, sufficiente a fare una storia. Per Carrozzeria Orfeo, compagnia itinerante, nata dall’incontro casuale nelle sale prova d’accademia, questi quindici anni sono stati il principio, la crescita, il consolidarsi di un progetto artistico e imprenditoriale ben raccontato in questo volume edito da Cue Press e scritto dal […]
13 Febbraio 2024

Per una sociologia di Stranger Things

Ludovico Cantisani, «ODG Magazine»

La casa editrice Cue Press di Bologna ha dato di recente alle stampe il volume collettivo I segreti di Stranger Things, raccolta eterogenea di saggi a cura di Kevin Wetmore jr., professore di teatro e cinema in Marymount. Sin dal sottotitolo del libro – Nostalgia degli anni Ottanta, cinismo e innocenza – si intuiscono alcune […]
10 Febbraio 2024

Samuel Beckett, un vademecum per affrontarlo

Michele Casella, «la Repubblica»

Entrare nelle opere di Samuel Beckett, autore ‘assurdo’ per antonomasia, precursore di una visione artistica omnicomprensiva, deve essere stato facile per Enzo Mansueto. Perché il lavoro di sottrazione continua che caratterizza il ‘non’ stile dell’autore irlandese si sovrappone al calibratissimo senso ritmico nell’uso della parola. Questa familiarità col ritmo Enzo Mansueto di sicuro la possiede, […]
6 Febbraio 2024

Ruby Cohn — Beckett: un canone. Intervista a Enz...

Sergio Rotino, «Satisfiction»

Erano decenni che in Italia non si vedeva una simile attenzione verso l’opera di uno dei più grandi geni letterari che abbia prodotto il Novecento. Si vede che finalmente era tempo di dare a Cesare quanto gli spettava, quindi a Samuel Beckett quel che è di Samuel Beckett. E se il Meridiano mondadoriano, Romanzi, teatro […]
3 Febbraio 2024

Intervista di Mario Mattia Giorgetti a Gigi Giacob...

Mario Mattia Giorgetti, «Sipario»

Gigi Giacobbe da oltre undici anni collabora alla rivista «Sipario», e puntualmente ad ogni stagione segue spettacoli in Sicilia e in varie città d’Italia compresi i Festival che vengono proposti. Quando scopri il regista Bob Wilson e quale è stato il primo spettacolo che hai visto? Bob Wilson non è solo un regista ma un […]
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Un estratto dalla prefazione «Faceva freddo a Par...

Enzo Mansueto, «Corriere del Mezzogiorno»

Quella del 5 gennaio 1953 fu una serata fredda, a Parigi. Questo, almeno, è ciò che riferiscono le memorie di chi c’era, nonché qualche vecchio giornale, oltre ai registri meteorologici. La mattina del nuovo anno la città s’era risvegliata sotto un inusuale manto di neve, a seguito di una tempesta che aveva spazzato il nord-ovest […]
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Juan Mayorga, Ellissi. Saggi 1990-2022, a cura di...

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«Il cinema, questione di vita o di morte: spezzai...

Bernardo Bertolucci, «Il Fatto Quotidiano»

Anticipiamo stralci di Scene madri, il memoir di Bernardo Bertolucci con Enzo Ungari, in libreria con Cue Press. «Vorrei poter parlare di cinema senza paura di raccontare aneddoti, usando molto la prima persona, senza vergogna e con molto affetto per qualche non sense a cui sono affezionato. So che la cosa può risultare oltraggiosa, perché […]
15 Gennaio 2024

Con Jon Fosse, dentro quel buio luminoso

Roberto Canziani, «Hystrio», XXXVII-1

Ne hanno parlato così tanto i giornali, che era poi logico veder schizzare Jon Fosse, Premio Nobel 2023 per la letteratura, nei posti alti delle classifiche nelle librerie. Alti se confrontati con lo spazio residuo che il teatro occupa oggi nell’editoria italiana. Ha fatto quindi bene Cue Press a rimettere velocemente in circolazione tre lavori […]
15 Gennaio 2024

Premio della Critica 2023, un parterre d’eccelle...

Alice Strazzi, «Hystrio», XXXVII-1

Il 20 novembre il Teatro Gobetti di Torino ha accolto gli undici premiati dell’edizione 2023 dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro: Natale in casa Cupiello, spettacolo per attore cum figuris, di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia, con la regia di Lello Serao; Arturo Cirillo, Laura Curino, Fabrizio Ferracane, Manuela Mandracchia, Tindaro Granata (nuovamente vincitore del […]
15 Gennaio 2024

Sulle strade d’Europa in cerca dei Maestri

Ilaria Angelone, «Hystrio», XXXVII-1

Più libri convivono in Strade maestre, road book scritto in tempi di pandemia, quando la disperazione era sempre dietro l’angolo e si sentiva il bisogno di ancorarsi. Nove personalità del teatro europeo, nove ‘Maestri’ riconosciuti come tali dai due autori, sono i protagonisti di altrettanti incontri avvenuti da Berlino a Parigi, da Losanna a Palermo. […]
15 Gennaio 2024

Scritti sul teatro di Fadini

Andrea Bisicchia, «Il Mondo»

Non c’è dubbio che, per chi scrive per un giornale, debba rispondere alla ideologia del proprietario, e non c’è dubbio che, quando si è intervistati da una testata, di destra o di sinistra, bisogna, in parte, concedere qualcosa in cambio, per dare un senso di parte al titolo dell’articolo. Per quanto riguarda la figura del […]
15 Gennaio 2024

Grotowski e il suo «teatro povero», definito anc...

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Tra il 1965 e il 1975, il teatro internazionale ha vissuto e ha fatto vivere uno dei momenti più straordinari e irripetibili. Parecchi di noi ricordano ancora, avendoci fatto provare delle emozioni, fino alla commozione, Il Principe Costante di Grotowski, I giganti della montagna di Strehler, Orlando furioso di Ronconi, La Trilogia Testoriana di Andrée […]
10 Gennaio 2024

Theodoros Terzopoulos: Scena, mondo infinito

Valeria Ottolenghi, «Gazzetta di Parma»

Theodoros Terzopoulos: era stato Michalis Traitsis, regista di valore che lavora tra Venezia e Ferrara, a raccontare, durante un incontro di studiosi diversi anni fa, di questo maestro/artista greco riconosciuto tra i più grandi d’Europa. Come spesso accade in tali situazioni si avverte un senso di disagio per quelle lacune che sembrano non permettere un’adeguata […]
22 Dicembre 2023

Una rosa per Sam

Antonio Borriello, «SamuelBeckett.it»

Una rosa per ricordare il mio amatissimo Samuel Beckett, morto il 22 dicembre del 1989 a Parigi, premio Nobel per la Letteratura nel 1969. Autore di opere ritenute ormai dei classici come Aspettando Godot e Finale di partita, mutò l’ordinario in straordinario, il Nulla e l’Attesa in Speranza. Oggi più che mai il grande dubliner […]
3 Dicembre 2023

Parla il silenzio – Il suo teatro delle vite...

Laura Zangarini, «Corriere della Sera»

Il Nobel, assegnato a Jon Fosse per le sue «opere teatrali innovative e per la prosa che danno voce all’indicibile», corona una carriera straordinariamente produttiva e pluripremiata: 40 opere teatrali, romanzi, racconti, libri per bambini, poesie e saggi. Lo stile minimalista di Fosse è spesso paragonato a quello di Samuel Beckett (1906-1989), verso il quale […]
3 Dicembre 2023

Jon Fosse: l’uomo che prega

Mauro Covacich, «Corriere della Sera»

In quasi tutti i libri di Jon Fosse c’è un uomo che prega. Quasi sempre quest’uomo fa il pittore, o meglio, è un pittore che crede in Dio, un credente la cui fede però attiene a qualcosa di più di una religione, direi piuttosto a un sentimento panico nei confronti dell’esistente. Questo artista, tutt’altro che […]
2 Dicembre 2023

«Il coro è il segreto del teatro». Intervista a...

Matteo Brighenti, «Pane Acqua Culture»

Scena e società, adolescenti e classici, nel segno del divenire uno in molti, attraverso il coro. «Ci sta a cuore il teatro solo quando è insieme lo specchio dell’io, la psiche individuale profonda, e del noi, ovvero il mondo». Un mistero e insieme una pratica che Marco Martinelli ha racchiuso ora in un libro intitolato […]