Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Luces teatrales portada
5 Giugno 2021

Magia della luce che tutto crea e tutto distrugge

Franco Marcoaldi, «la Repubblica»
A chi fa della facile ironia sui presunti echi new age di quanti individuano nella luce l’energia suprema e sacra che a tutto sovrintende e a cui è giusto inchinarsi, sarà bene ricordare che in avvio della Bibbia leggiamo «fiat lux» e nel Corano «luce su luce». Senza contare poi che sinonimo di nascita è «dare alla luce», mentre per contro, morendo, entriamo nel buio eterno. D’altronde la stessa indiscussa sovranità di tale elemento, assieme magico e inafferrabile, la ritroviamo in pittura, oltre che nella fotografia e nel cinema. Bene lo dimostra un volume a quattro mani, di grande interesse, pubblicato dall’editore Cue Press: Dire luce. Ad animare il serratissimo dialogo sono Cristina Grazioli e Pasquale Mari. La prima è una studiosa da sempre attenta ai rapporti tra la scena e le arti visive. Il secondo un artista, (anche se preferisce definirsi ‘operaio della luce’), che in qualità di direttore della fotografia ha lavorato con i più importanti registi di cinema. Mentre in ambito teatrale, dove la sua attività è non meno intensa, sceglie per sè il termine nostrano di ‘direttore luci’ (e anche per averci risparmiato il lighting designer, oggi tanto in voga, dobbiamo essergli grati). A un certo punto del libro, Mari annota: «In termini psicofisici, chi si occupa della luce patisce una mancanza. Quella del tatto. Si soffre di non poter toccare la luce proprio mentre ci è richiesto di modellarla, di manipolarla, di farne strumento; scappa letteralmente da tutte le parti e si spende la vita a rincorrerla, a dirigerla, a provare a incanalarla (ma non è acqua), a modellarla (ma non è creta)».Non si poteva dire meglio. Chi scrive con la luce deve affrontare con coraggio il possibile scacco a cui va incontro. E per evitarlo deve industriarsi in mille modi: intraprendendo un costante corpo a corpo con lo spazio scenico da svelare. Per poi giocare in quello spazio sempre di sguincio: con l’infinita gamma di possibili colori, con la penombra, la materia, la «polvere luminosa del palcoscenico», perfino con il buio (che non è mai totale). Del resto, come scrive San Giovanni della Croce: «La luce non è cosa che si vede per se stessa, ma è il mezzo tramite cui si vedono le altre cose sulle quali essa si rifrange». E Mari chiosa: «Se non incontra qualcosa come un corpo o un oggetto (o un’anima, dice de la Cruz), la luce (anche quella di Dio) è buio». Bene lo sa chi da una vita prova a metterla in scena.
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3 Giugno 2021

Renzo Guardenti, In forma di quadro. Note di iconografia teatrale

Iari Iovine, «Sinestesieonline»
L’indagine sull’iconografia teatrale è stata da sempre oggetto di studio di Renzo Guardenti, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Firenze e direttore dell’Archivio di iconografia teatrale «Dionysos». L’argomento iconografico, tessuto connettivo imprescindibile nelle ricerche di ambito artistico-teatrale, trova ora nuovo sviluppo con la pubblicazione del volume In forma di quadro. Note di iconografia teatrale, edito da Cue Press. Il lavoro riordina una serie di contributi imperniati sui risultati di alcuni decenni di ricerca nel settore. Offrendosi, infatti, come un articolato compendio di saggi, per l’occasione attentamente ritagliati ed emendati, il volume assoda con un discorso organico e convincente il legame tra teatro e arti figurative, al fine di reiterarne la fondamentale valenza ricoperta dagli studi teatrali. Il percorso investigativo si snoda essenzialmente lungo tre linee portanti che comprendono: una analisi speculativa del documento iconografico, con il relativo impiego e approccio metodologico compiuto dagli studi storici; le raffigurazioni della Commedia dell’Arte, specie del versante francese, responsabili di aver influenzato il mondo culturale europeo instillando precisi canoni artistici (quali pose, atteggiamenti o costumi); l’indagine sulle fonti iconografiche dell’attore verificate in un arco temporale di tre secoli, dal Settecento al Novecento, e condensata in particolare sul profilo dell’attrice Sarah Bernhardt avanguardista, come diremmo oggi, nel campo del personal branding, l’arte di promuovere la propria immagine; concludendo con l’esplorazione degli assetti visivi delle prime regie di Luchino Visconti. Il volume è opportunamente corredato da immagini, allegate alla fine del testo, che si offrono come oggetto di confronto, analisi e riflessione sui temi enunciati. Nel primo filone di ricerca confluiscono i capitoli iniziali (dal primo al terzo), intesi a rimarcare l’importanza delle immagini di teatro quali vettori indispensabili della natura visiva delle arti sceniche. Costituite da una duplice qualità che le connota sia come «monumenti», per la loro identità indipendente di dipinto, incisione o fotografia, che come «documenti», ossia fonti visive delle prassi sceniche e attoriche, tali immagini hanno il compito di tramandare la «memoria di forme artistiche». In una sinossi preliminare, Renzo Guardenti ricostruisce le traiettorie storiografiche attraversate dagli studiosi cimentatisi in questo campo di ricerca – tanto sterminato quanto multiforme – e relativo ai rapporti tra figurazione e scena. Dalle pionieristiche tesi di Émile Mâle, George Ridley Kernodle, agli studi di Erwin Panofsky ed Aby Warbung, nonché alle ricerche italiane di Cesare Molinari, Ludovico Zorzi, Maria Ines Aliverti o Elena Tamburini, l’autore sottolinea come ognuno di essi determini, seppur con prospettive, teorie e metodi di analisi dissimili, un punto di partenza essenziale ma, soprattutto, rivolto ad incentivare l’apertura verso nuovi orizzonti di indagine. Il passaggio dalla scena o dal dramma, al quadro o a qualunque altra superficie artistica, può essere decifrato, a detta dell’autore, come «un vero e proprio atto di traduzione». A partire dal paragrafo intitolato Iconografia come traduzione prende avvio, infatti, un discorso pertinente alla percezione visiva che tiene conto di come essa muti a seconda dell’osservatore, puntando inevitabilmente l’attenzione sulle problematiche connesse alle correlazioni tra arti figurative e teatro, specie quando le prime reinterpretano un soggetto adattandosi ad un cambiamento complessivo dei giudizi della figurazione. A tal proposito, egli riporta alcuni esempi che alterano le caratteristiche percettive e il significato stesso di un soggetto riferendosi, in particolare, alla conversione (e dunque traduzione) di un’opera grafica, o pittorica, in quella di un’incisione; oppure riferisce episodi di percezione totalmente antitetica nell’osservatore, quando segnala il lavoro di artisti, come Claude Gillot o Huquier, che inglobano in un’unica immagine vari e consecutivi estratti della medesima scena, tecnica consueta nelle illustrazioni decorative delle edizioni drammaturgiche. Rovesciando invece l’impostazione dell’assetto scena-quadro, l’autore mostra un particolare caso di «trasmutazione», che dal documento figurativo viene trasferito al palcoscenico. Ad essersi invischiato in questa peculiare forma di traduzione è ad esempio l’attore David Garrick, uno dei volti più ritratti nella seconda metà del Settecento che, come conseguenza alla divulgazione della propria immagine mediante le stampe, sperimenta un originale rapporto di riverbero: dalle raffigurazioni di sé egli tenta di estrapolare nuovi atteggiamenti da riprodurre sulla scena, innescando un processo di imitazione del ritratto che dalle stampe viene trapiantato alla scena, dunque in direzione diametralmente opposta ai precedenti esempi. Nel mirino dell’indagine autoriale sull’iconografia convergono anche le riviste teatrali, nelle quali lo studioso riscontra una sorta di ostilità, capillare e variegata, nei confronti dei dossier visivi di pratiche sceniche. Descrivendo infatti alcune esperienze personali vissute in tale settore e le istanze paradossali a cui ha dovuto adattarsi, egli fornisce informazioni quantomeno utili e chiarificatrici per un lettore che vuole avvicinarsi agli studi iconografici di settore. Le contraddizioni riportate rivelano un atteggiamento iconoclastico di periodici importanti, di fatto ancora restii nel pubblicare liberamente immagini nei propri spazi. Ed è dopo una breve rassegna di riviste teatrali e delle loro diverse tipologie, che egli attesta quanto il comune denominatore che lega questi periodici, in modo più o meno co- sciente, sia la volontà di imprimere sulla carta «un’idea di teatro», motivo che pare scontato ma che, a ben guardare, esercita la possibilità di ampliare quelli che Ferdinando Taviani definiva «teatri-in-forma-di-libro». Valga per tutti l’esempio di «The Mask», celebre rivista ideata e redatta da Edward Gordon Craig, la quale viene tempestata di elementi decorativi tra le superfici tipografiche, presenta studi costumistici e scenografici nei propri fascicoli, ed esibisce spezzoni di disegni registici avvicinandosi, così facendo, ad un vero e proprio «model stage». Per di più, nel successivo quinto capitolo, viene fatta luce anche su una categoria spesso estromessa dall’indagine sul campo, quella degli almanacchi, decifrati dallo studioso come straordinarie risorse per la documentazione visiva di messe in scena dell’Ancien Théâtre Italien. Più difficili da argomentare sono invece le icone dello spettacolo contemporaneo a cui viene dedicato il terzo capitolo. Con l’affermazione della nozione e della funzione di regia viene iniettata, come risaputo, una graduale ma massiccia dose di coefficiente visivo sulla scena novecentesca e, nel segnalare fenomeni iconografici inclini a mettere in crisi il concetto stesso di documentazione illustrativa, lo studioso annota una serie di esperienze teatrali che prendono le distanze dall’approccio mimetico-figurativo. L’uso spropositato di estensioni temporali o, all’opposto, le estreme decelerazioni di alcuni allestimenti (come gli espedienti scenici adoperati da Bob Wilson) e, in linea di principio, gli spettacoli aderenti a quel genere definito teatro-immagine, aprono la strada a nuovi sistemi di fruizione: «La disgregazione della tradizionale boîte scenica, la moltiplicazione dei punti di vista, la riformulazione dei rapporti spaziali tra evento e spettatore, la scomposizione e la frammentazione della diegesi, la dimensione figurale della scena e della manifestazione del corpo dell’attore/performer parcellizzano e rendono parziali anche i reperti visivi impedendo una ricomposizione, se non oggettiva, quantomeno unitaria del fenomeno cui si riferiscono». La questione innescata dallo studioso riguarda dunque, essenzialmente, la dimensione fenomenica, le labili impronte visive lasciate da questo tipo di rappresentazioni, quasi impossibili da ricostruire in un quadro unitario. Il quarto capitolo viene invece destinato agli studi sull’iconografia d’attrice, argomento che muove inevitabilmente dalla forma teatrale della Commedia dell’Arte. Al di là delle già note paladine della sfera ritrattistica, quali Isabella Andreini o Virginia Ramponi (Florinda), due volti sedimentatisi in maniera mirabile e sostanziale nelle opere d’arte del periodo, esemplare è la serie di piccoli ritratti realizzati da Bernerd Picart, prova infrangibile – come sottolinea Renzo Guardenti – della cospicua presenza femminile nelle illustrazioni. Seppur contraddistinte da uno spiccato gusto ornamentale e da sguardi che svelano repressi istinti passionali, le donne dell’Ancien Théâtre Italien raffigurate nella serie si collocano, alla fine del Seicento, su di un livello equipollente a quello dei colleghi attori, dunque sul medesimo gradino occupato dal genere maschile. Si tratta tuttavia di un fenomeno destinato a subire, negli anni successivi, un marcato assottigliamento dovuto a molteplici fattori. Il mito della Commedia Dell’Arte deve in gran parte la sua fortuna proprio ai contributi figurativi, le cui sedimentazioni nell’immaginario collettivo del tempo possono essere annoverate come un impulso trainante per la divulgazione del genere, specialmente per l’economia di mercato. Nell’attraversare il vastissimo repertorio iconografico, l’autore distingue la Commedia Dell’Arte come un autentico «modello epistemologico» in quanto riflette le ripercussioni scatenate e patite dall’intera gamma illustrativa, la resistenza di stilemi e fenomenologie in termini culturali ed estetici o le percezioni degli artisti, che spesso ne snaturano le copie reali. L’esempio più avvincente di alterazione d’immagine indicato è forse quello correlato alla maschera di Pulcinella. Costretto a subire una vera e propria destrutturazione della propria immagine, questo indiscutibile protagonista delle raffigurazioni settecentesche viene ritratto tanto in sfere domestiche e private, quanto in spazi asettici, completamente bianchi, che escludono anche il più minuto richiamo al teatro e alla teatralità; viceversa, denuncia l’autore, Pulcinella viene trasferito in un contesto talmente quotidiano che le più ordinarie azioni, del mangiare come del dormire, si arricchiscono di componenti criptiche ed imperscrutabili, generando di conseguenza sensazioni di sconcerto. Ma ad infrangere i tradizionali codici visivi è, più di tutti, il fenomeno della moltiplicazione dell’immagine, qualità inedita che non trova riscontri in altre maschere e si fa largo nei disegni del veneziano Giambattista Tiepolo, del figlio Giandomenico Tiepolo o del romano Pier Leone Ghezzi. Tali artisti inseriscono le varie sfaccettature della vita pulcinellesca in ambienti sospesi, «en plein air», dando spazio alla duplicazione del protagonista, il quale è ripreso in diversi punti del medesimo spazio ma in atteggiamenti diversi. Associato all’ultimo ambito d’analisi è invece il modello iconografico attoriale che, separatosi dall’esperienza della Commedia Dell’Arte, viene impostato sul lasso temporale che da François Joseph Talma conduce ad Antonio Morrocchesi. Se in area francese Talma appare decisamente consapevole della portata promozionale delle immagini, instaurando un autentico mito iconografico volto a registrare l’evanescente arte recitativa su ‘carta’ – tramutandola in ‘monumento’ –, in territorio tedesco le raffigurazioni di August Wilhelm Iffland e Ludwig Devrient assumono la forma di documentario, mentre in Inghilterra il modello di Edmund Kean, e le sue indimenticabili pose, accrescono la tendenza della ritrattistica d’attore. A finire invece in quell’ampio calderone che l’autore classifica come «macro-documento-iconografico» sono gli illimitati contributi visivi (dipinti, incisioni, fotografie, filmati) che hanno favorito la creazione della leggenda di una delle più grandi attrici europee del XIX secolo: Sarah Bernhardt. Ad essere esaminate sono soprattutto le impressioni, percepite da varie personalità artistiche, del potere seduttivo di un interprete. Consapevole delle potenzialità del proprio corpo, l’avvenente Bernhardt manifesta un’audacia spregiudicata dinanzi all’obiettivo, una sicurezza che la porta a divenire modello, per altre attrici, non solo recitativo bensì di femminilità e costume. Noto, pertanto, è il famoso stile «sarahbernardtesque» nel quale convergono anche i tratti privati e costumistici dell’artista che, in una costante commistione tra mondo attorico e mondo personale, attestano l’esigenza di non svincolare mai la donna dall’attrice teatrale per non scalfirne l’aura attrattiva. Ancora una volta è dimostrato come gli influssi annessi a prassi attoriche, o a stili personali di un performer, tratteggino un anello che congiunge il teatro alla vita in continua e vicendevole dipendenza. Esclusivo inoltre è l’approfondimento su quel «fil de l’image» che connette la Bernhardt alla pittrice francese Louise Abbéma, un tema che, vagliando i peculiari tagli compositivi o gli inusuali ed intriganti quadri che l’artista dedica all’attrice,stimola indubbiamente la curiosità e l’interesse del lettore. Infine, le ultime riflessioni di Renzo Guardenti si dipanano alle linee di tendenza che hanno contraddistinto i primi allestimenti registici di Luchino Visconti e le intrinseche strutture visive. Oltre a ribadire il Leitmotiv viscontiano dell’ossessionante realismo,caratteristica ampiamente dibattuta dagli studi critici e che affiora specialmente in quell’«attenzione microscopica al dettaglio minuto» che investe anche l’apparato scenografico, l’autore segnala l’indispensabile ruolo che Visconti attribuisce all’attore, componente che acquisisce nuovo spessore giacché «generatore del complesso visivo degli spettacoli […] elemento di raccordo tra la dimensione verbale e quella spaziale [e dunque scenografica]». Nell’insieme il volume rinnova, in modo critico e ragionato, la necessità di rinvigorire il dibattito sul rapporto tra palcoscenico e raffigurazione, svelandone gli impulsi e gli effetti complementari. Le argomentazioni propongono quesiti e nuove prospettive d’indagine, al fine di affinare quell’osmosi tra teatro e arte figurativa, sottintesa e mai banale, che verificata smaschera la trasversalità che contraddistingue i due universi in ‘visioni’ ineludibili. Collegamenti
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1 Giugno 2021

In forma di quadro. Note di iconografia teatrale

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

La confezione editoriale del volume In forma di quadro. Note di iconografia teatrale di Renzo Guardenti presenta 148 pagine che raccolgono saggi compilati dallo studioso fiorentino lungo vent’anni di ricerca e poi un corpo di 167 figure di supporto non decorativo, ma funzionale in quanto strumento necessario per lo studio dei rapporti intercorrenti tra teatro e arti figurative. Si tratta, in primo luogo, di capire il valore testimoniale delle fonti iconografiche, pur considerando la loro autonomia creativa in fase di rielaborazione figurativa dell’oggetto teatrale che si sostanzia – con il supporto di variegate tecniche artistiche – nella carta, nella tela, nella lastra dell’incisore, fino ai manufatti delle arti plastiche, nelle fotografie e nelle moderne riproduzioni visive.

L’indagine di Guardenti si articola lungo un percorso storico che procede dal Seicento al Novecento. La ricognizione inizia con le attrici della Commedia dell’Arte: fino all’ultimo ventennio del XVII secolo godono di modesta ma non insignificante presenza iconografica; successivamente si diffondono copiosi i loro ritratti singoli, dai quali è possibile congetturare il richiamo ad una certa e possibile dimensione scenica.
L’intreccio tra drammaturgia del testo, esercizio dell’attore e sedimentazione figurativa orienta l’osservatorio analitico di Guardenti sul versante francese, segnatamente nel perimetro culturale della prima Comédie Italienne e nei contributi pittorici di Claude Gillot e di Jean-Antoine Watteau, cui segue una puntigliosa analisi delle raffigurazioni della Commedia dell’Arte diffuse nel Settecento.

Il discorso cambia quando l’attore, a cavallo tra XVIII e XIX secolo, inizia ad affermarsi come entità sociale e culturale. L’attore si mette in posa, statuaria e teatrale, come dimostra François-Joseph Talma, immortalato, con limpidi riferimenti al suo linguaggio performativo, nei panni di Nerone da Eugène Delacroix nel 1853.
Luminose sono le pagine che Guardenti dedica a Sarah Bernhardt, la «prima vera diva della storia dello spettacolo in grado di fare tendenza non solo nel teatro ma anche in termini di costume e stile di vita» (p. 122). Immortalata da diverse centinaia di fotografie, diventa presto modello figurativo per la coeva generazione di attrici che ne assumono pose, gesti e abbigliamenti, come l’austriaca Adele Sandrock.

In forma di quadro si conclude con una minuziosa e intrigante analisi delle prime regie di Luchino Visconti, dall’opera lirica La Vestale di Gaspare Spontoni, allestita nel 1954, a Parenti terribili di Jean Cocteau (1945) e La vita del tabacco di Erskine Caldwell (1945). Il realismo del regista attraversa sia la connotazione dei personaggi, tanto melodrammatici quanto teatrali, che il linguaggio figurativo dell’impianto scenografico, come emerge con chiarezza dalle foto di scena.

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9 Maggio 2021

The Global City: presentazione del libro e intervista a Simona Frigerio

Matteo Carriero​, «LibriNews»

Raccontare il lavoro della Compagnia Instabili Vaganti significa addentrarsi nel loro mondo, cosparso della polvere del palcoscenico ma costruito su quattro continenti. Un viaggio che da Genova si sposta, nel tempo e nello spazio, rievocando sprazzi di storia – come il ’68 a Città del Messico – ma sollecitando, nel contempo, un confronto continuo con la realtà. In delicato equilibrio tra le città letterarie di Calvino e le metropoli urticanti di Ballard. Un viaggio affascinato e affascinante per scoprire come si costruisce quel perfetto meccanismo teatrale che è lo spettacolo, ma anche i pensieri e gli ideali di una coppia di artisti che ha posto al centro del proprio mestiere, altamente artigianale, la consapevolezza di esserci nel mondo.

Intervista all’autore

Come è nata l’idea di questo libro?

Dalla comune passione per il viaggio. Non la vacanza all-inclusive, bensì quell’andare in cerca di sé vagando per il mondo.

Quanto è stato difficile portarlo a termine?

La difficoltà, quando si inizia un libro, sta nell’inquadrare lo specifico dello stesso. Faccio un esempio per chiarire. Se dovessi scrivere il libro su una compagnia che si confronta, attraverso uno spettacolo, con un preciso fatto storico – passato o presente – il libro si muoverebbe su binari documentali, interviste, e avrebbe il sapore del reportage o del libro di storia. In questo caso, mi sono ispirata alla letteratura di viaggio.

Quali sono i tuoi autori di riferimento?

Sono una lettrice vorace. Direi che amo la letteratura dell’Ottocento, Proust e Dostoevskij su tutti. Ma adoro anche i modernisti inglesi e, quindi, Virginia Woolf. Una mia passione è il giallo, forse in quanto mi interesso di enigmi, e anche per questo leggo assiduamente Dürrenmatt.

Dove vivi e dove hai vissuto in passato?

Da quasi dieci anni sono diventata cittadina Toscana (anche se i toscani doc non si definirebbero mai tali dato che si identificano ognuno con la propria città). Per anni ho vissuto a Milano, metropoli che non sopportavo più e dalla quale sono letteralmente scappata: io sono figlia della Milano dei Centri sociali, dell’impegno civile e politico; la Milano della moda e della ‘movida’ mi rispecchia poco. Però Milano mi ha insegnato l’etica del lavoro. E poi ho vissuto a lungo in Gran Bretagna e da vent’anni giro il mondo in lungo e in largo, tanto che considero ormai l’Oriente la mia patria d’adozione, anche se Cuba mi ha rubato il cuore.

Dal punto di vista letterario, quali sono i tuoi progetti per il futuro?

In primis terminare il mio secondo romanzo. Ho già pubblicato due raccolte di racconti e ho scritto un romanzo giovanile che è rimasto, e rimarrà, nel cassetto. Per me scrivere è come respirare: impossibile non farlo.

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Totò
7 Maggio 2021

Il teatro di Totò dal 1932 al 1946 in un prezioso libro a cura di Goffredo Fofi

Irene Antonella Marcon, «Caleno24Ore»

In questo prezioso libro a cura di Goffredo Fofi viene raccolto Il teatro di Totò (Cue Press, 269 pagine, 34,99 Euro) del periodo 1932-1946. Prima di divenire nel cinema un impareggiabile attore comico, Totò fu – negli Anni Trenta – uno dei massimi interpreti del teatro della tradizione popolare napoletana. Nel volume i lettori troveranno esilaranti sketch e scene che attingono direttamente alla «farsa urbana e sottoproletaria di Pulcinella», al genere del varietà innovato dal café-chantant, fino alla «rappresentazione comica di un certo piccolo borghese italiano, timido, aggressivo, pauroso e alla fine ridicolo», viene restituito lo spirito più genuino della comicità di Totò: irriverente nella satira politica (e, per questo, vittima della censura fascista), irresistibile quando ridisegna i luoghi comuni sulla napoletanità. Questi testi svelano la completezza artistica di Totò, qui in veste di assoluto mattatore della scena, lungo una variegata galleria di personaggi in cui spiccano le sue inconfondibili doti di ironica maschera.

Il curatore Goffredo Fofi, nato a Gubbio nel 1937, si è occupato, tra Sud e Nord del Paese, di questioni pedagogiche e sociali. Ha inoltre collaborato con molte riviste («Quaderni piacentini», «Ombre rosse», «Linea d’ombra», «Lo straniero», «Gli asini») animando la vita culturale italiana. Malgrado la vastità delle sue pubblicazioni, la sua opera più apprezzata resta l’inchiesta su L’immigrazione meridionale a Torino (1963). Tra i suoi libri di cinema, ricordiamo le monografie dedicate a Totò (in collaborazione con Franca Faldini, con la quale ha anche realizzato i tre grandi volumi di interviste su L’avventurosa storia del cinema italiano), a Marlon Brando e ad Alberto Sordi.

Scrive tra l’altro Goffredo Fofi: «Nato nel 1898, Antonio De Curtis, in arte Totò, ha fatto le sue università recitando a Napoli nelle farse a soggetto, d’origine ottocentesca e pulcinellesca. Canovacci tramandati su copie manoscritte, più raramente stampate, e arricchiti dai ricordi dei figli d’arte: il tale a questo punto faceva questa mossa, introduceva questa battuta, si rivolgeva al pubblico in questo modo, divagava provocando la spalla su questo equivoco… Come in ogni tradizione di teatro popolare autentico, si arricchiva e trasformava di continuo una materia consolidata, regole codificate. Niente nasceva dal niente; ma le suggestioni del momento, della platea, dell’incontro tra temperamenti diversi, provocavano (e provocano tuttora, nella sceneggiata) una possibilità di variazioni assai grande, in una continua e produttiva dialettica tra vecchio e nuovo, tra fisso e mobile, tra rigido e aperto».

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Teatri romani in italia
4 Maggio 2021

Vincenzo Blasi, Teatri greco-romani in Italia

Diana Perego, «Drammaturgia»

Il volume di Vincenzo Blasi è dedicato a Khaled al-Asaad, l’archeologo siriano giustiziato nel 2015 dai miliziani jihadisti per essersi rifiutato di rivelare dove fossero nascosti i tesori di Palmira, il cui teatro romano fu poi parzialmente distrutto il 21 gennaio 2017. A partire da questo tragico avvenimento l’autore esprime «l’attaccamento ad un concetto di cultura e di appartenenza che guida il lettore alla scoperta del suo passato e delle sue eterne bellezze» (così Nicola Savarese nell’introduzione, p. 7).

L’opera – «destinata alla consultazione, allo studio, all’aggiornamento, al viaggio e alla semplice curiosità» (p. 9) – si presenta come un dizionario comprendente più di duecentocinquanta voci relative a teatri greci, greco-romani, romani, anfiteatri, odea, circhi, stadi. Vi sono considerati non solo gli edifici di cui si sono conservati i reperti archeologici, ma anche quelli identificati solo su base epigrafica, documentaria o letteraria.

Simboli di tradizione e contemporaneamente esempi di innovazione, i luoghi spettacolari in Italia presentano infinite varianti estetiche e strutturali a seconda della tipologia e dell’utilizzo, dell’ambito cronologico e geografico. Sfogliando il volume emergono con evidenza somiglianze e differenze che rendono unico, anche in questo ambito, il patrimonio del nostro paese. Apprezzabile l’attenzione riservata al legame imprescindibile tra i theatra e i territori in cui sono stati costruiti e utilizzati. Il teatro e la città: un legame di lunga durata, come sappiamo.

Il testo, di facile utilizzo, si presenta articolato in lemmi in ordine alfabetico secondo la denominazione odierna o più conosciuta della località, comprendendo un breve inquadramento storico del luogo e una descrizione dettagliata dei reperti archeologici con riferimenti anche alle campagne di scavo. Alla fine di ogni sezione sono offerte immagini puntuali: fotografie recenti dei siti e piante dei monumenti. Si alternano utili schede riassuntive di teatri noti e molto indagati, come il theatron greco di Siracusa (pp. 193-196), e approfondimenti di monumenti trascurati come quelli lombardi di età romana (Bergamo, p. 42; Como, p. 60).

Segnaliamo la sintesi sul teatro e l’anfiteatro della romana Florentia (p. 79). I resti del theatron del primo secolo d.C. si trovano sotto gli attuali palazzo Vecchio e palazzo Gondi. Come evidenzia la pianta dell’edificio (p. 87), la cavea era rivolta verso piazza della Signoria, mentre la scena si snodava lungo piazza San Firenze e via dei Leoni. Nell’attuale quartiere di Santa Croce sorgeva l’anfiteatro romano (130 d.C.), ricordato per la prima volta nel 1764 da Domenico Maria Manni in Notizie istoriche intorno al Parlagio ovvero anfiteatro di Firenze. Il monumento è ancora oggi riconoscibile dall’andamento curvilineo delle vie e dalla toponomastica della zona: via Torta, via del Parlascio, dal greco perielasis, ‘girare attorno’. È aggiornata la bibliografia al riguardo (pp. 277-278).

Il catalogo, di facile lettura, è rigoroso, e presenta i termini greci e latini specifici della disciplina, spiegandoli in modo chiaro e sintetico in poche pagine introduttive (pp. 14-18). In conclusione per ogni lemma sono riportate le fonti antiche (documenti letterari, epigrafi, iscrizioni) e i riferimenti bibliografici moderni.

Nonostante il volume si ponga come prezioso strumento di consultazione per docenti e discenti, rimangono comunque imprescindibili i due regesti Censimento analitico. Teatri greci e romani. Alle origini del linguaggio rappresentato, a cura di Paola Ciancio Rossetto e Giuseppina Pisani Sartorio (Roma, Edizioni Seat, 1994, 3 voll.), e il più recente Antike Theaterbauten. Ein Handbuch (Wien, Verlag der österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2017, 3 voll) di Hans Peter Isler.

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Strehler 4
1 Maggio 2021

20 lezioni su Giorgio Strehler di Alberto Bentoglio

Michele Olivieri, «La Nouvelle Vague Magazine»

L’esaustivo libro, pubblicato da Cue Press nella collana I saggi del teatro (393 pagine), si rivela uno stimolante saggio rivolto a coloro che desiderano conoscere ed approfondire l’opera del grande Maestro triestino. La monografia raccoglie le lezioni che l’autore, durante i mesi di lockdown dovuti all’emergenza sanitaria, ha tenuto a distanza per il suo corso di docenza sulla Storia del Teatro.

Venti lezioni che hanno approfondito il percorso artistico di Giorgio Strehler, così da fornire agli studenti un valido aiuto per la preparazione dell’esame. La maggior parte dei materiali utilizzati è conservata presso l’Archivio Storico del Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Fondo Giorgio Strehler.

La pubblicazione si avvale inoltre di un apparato di immagini evocative che riportano alla mente spettacoli memorabili come Arlecchino servitore di due padroni, I giganti della montagna, La tempesta, Il giardino dei ciliegi, L’opera da tre soldi, L’anima buona di Sezuan, Vita di Galileo, Re Lear, La grande magia, Faust. Completano la monografia una interessante bibliografia del Maestro con la menzione dei volumi a lui dedicati, il teatro di regia, gli articoli di periodici e riviste, oltre ad un apparato sulla Teatrografia con un completo indice delle regie strehleriane.

L’attività didattica e di apprendimento viaggia di pari passo. L’obiettivo è un percorso votato alle esatte risorse formative fruibili di assegnazione, pensato per accompagnare e verificare i progressi durante lo studio, ma anche per informare tutti coloro che hanno amato Strehler, il Piccolo Teatro di Milano e, in generale, la Storia del Teatro che, lezione dopo lezione, spicca in tutto il suo splendore per la riscoperta nel largo catalogo di autori e di fonti seguite alla creatività di Strehler, sempre pronto ad offrire al pubblico soluzioni poliedriche, puntando ad innovazioni nel pieno rispetto della tradizione, nonché a combinazioni di assoluta genialità.

La panoramica complessiva permette così di delineare una storia contraddistinta da rapporti complessi e affascinanti, presentando memorabili allestimenti, tra i più rilevanti della scena mondiale (e altrettanto indimenticabili interpreti), messi in scena nella realtà della drammaturgia, sempre e comunque attraverso la poetica. Strehler ha fatto del suo lavoro un insieme di concetti relativi alla poesia, sia in quanto motore dell’umanità sia in quanto richiami ad esperienze letterarie ed estetiche a lui care, senza tralasciare mai tutte le altre arti.

Venti lezioni per conoscere Giorgio Strehler (1921-97) attraverso un percorso cronologico che prende in considerazione tutti gli spettacoli (teatrali e musicali) che il regista ha allestito nel corso della sua carriera. Padre fondatore del teatro di regia in Italia, Strehler, con la nascita nel 1947 del Piccolo Teatro di Milano, ha saputo tracciare nuove strade all’insegna dell’attualità culturale, dell’apertura nei confronti delle drammaturgie straniere, ma, soprattutto, della costante evoluzione di una personale poetica.

Ha dedicato la sua esistenza alla creazione e diffusione globale del ‘teatro d’arte’, quale espressione di un impegno artistico di alto profilo morale e civile, un teatro ‘necessario’ destinato a svolgere un’importante funzione di coscienza politica, sociale e culturale.

L’autore

L’autore, Alberto Bentoglio, insegna Storia del Teatro all’Università Statale di Milano dove, dal 2017, dirige il Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali. Prendendo le mosse dagli ultimi decenni del Settecento, Bentoglio ha approfondito la ricerca sul panorama teatrale italiano fino all’Unità d’Italia. Ha inoltre studiato l’organizzazione dello spettacolo dal vivo, in particolare della realtà milanese, con riferimento al magistero di Grassi e Strehler.

Fra le sue pubblicazioni, ricordiamo: L’arte del capocomico: biografia critica di Salvatore Fabbrichesi (Roma, Bulzoni, 1994); Antonio Colomberti, Memorie di un artista drammatico (Roma, Bulzoni, 2004); Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello per Giorgio De Lullo (Pisa, ETS, 2007); L’attività teatrale e musicale in Italia (Roma, Carocci, 2007); Antonio Colomberti, Dizionario biografico degli attori italiani (Roma, Bulzoni, 2009); Il Teatro dell’Elfo (1973-2013) (Milano, Mimesis, 2013); Milano, città dello spettacolo (Milano, Unicopli, 2014).

Le edizioni Cue si trovano ad Imola (Bo). Alla fine del 2012, intorno a Mattia Visani, ultimo autore della Ubulibri di Franco Quadri, nasce la prima casa editrice ‘digital first’ interamente dedicata alle arti dello spettacolo.

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26 Aprile 2021

In forma di quadro. Note di iconografia teatrale

Lorena Vallieri, «Drammaturgia»

«L’iconografia teatrale è una delle grandi questioni irrisolte della storiografia sullo spettacolo» (p. 11). È questo l’assunto di partenza del recente volume di Renzo Guardenti: una raccolta di saggi scritti nell’arco di quasi vent’anni dedicati ai temi e ai problemi legati all’utilizzo delle immagini come fonte per indagare e comprendere le arti della scena. A cominciare dalla loro doppia natura: da una parte di oggetto artistico autonomo – con un proprio linguaggio e con proprie regole e tecniche –, dall’altra di sedimentazione visiva delle pratiche performative. Monumenti e documenti, per utilizzare una nota endiadi concettuale di Jacques Le Goff. Forse anche per sfuggire a questa loro complessità le testimonianze iconografiche sono spesso utilizzate come mere illustrazioni, quando non ignorate da un campo di studi in cui è ancora fortemente radicato un pregiudizio testocentrico ormai anacronistico. Le immagini di teatro hanno invece un’importanza primaria per la storia dello spettacolo: tramandandone la dimensione visiva, consentono «di perpetuare la memoria di forme artistiche che, in virtù del loro carattere effimero, rischierebbero di essere relegate nell’ambito della parola, del discorso, del testo scritto» (ibid.).

Se quella tra arte e spettacolo è destinata a essere una «partita senza fine», come l’ha definita Sara Mamone (Dèi, semidei, uomini. Lo spettacolo a Firenze tra neoplatonismo e realtà borghese [XV-XVII secolo], Roma, Bulzoni, 2004), essa ha trovato nei lavori della scuola fiorentina un proficuo cantiere di studi che, avviato da Cesare Molinari e Ludovico Zorzi rispettivamente negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è stato portato avanti con profitto dai loro allievi – lo stesso Guardenti, Mamone e Stefano Mazzoni in primis – secondo due linee di ricerca che l’autore definisce «assolutamente parallele e per certi aspetti divergenti» (p. 12), ma che ritengo piuttosto complementari. La prima si è orientata verso la ricostruzione storico-filologica delle diverse forme dello spettacolo attraverso la messa in luce degli elementi e dei processi che hanno portato alla costituzione dell’opera; la seconda ha privilegiato la definizione delle diverse idee e prassi di teatro e di quel complesso sistema di relazioni tra committenti, realizzatori e fruitori che è alla base del fare spettacolo.

Entrambe hanno portato gli studiosi a interrogarsi su quelle che sono le radici profonde delle discipline teatrali e sul loro statuto metodologico, compreso il modo in cui relazionarsi con le fonti iconografiche. Ne è emersa la necessità di articolare questo tipo di reperti in coerenti e organiche tipologie documentarie che permettano la loro catalogazione e una più facile fruizione anche attraverso appositi archivi digitali. Tra questi non si può non segnalare Dionysos, promosso dal dipartimento di eccellenza SAGAS dell’Università di Firenze sotto la direzione di Guardenti: oltre ventiduemila immagini riferibili al teatro e allo spettacolo dall’antichità classica alla prima metà del Novecento schedate sulla base di criteri che privilegiano la teatralità del documento.

Tale archivio di iconografia teatrale, al pari del volume che qua si presenta, è parte degli esiti scientifici di una linea di ricerca da tempo portata avanti da Guardenti e volta a indagare non solo i rapporti tra teatro e arti figurative, ma anche il valore testimoniale della documentazione iconografica a vario titolo riferibile alle arti dello spettacolo nonché le possibilità di impiego di tali documenti nell’ambito di ipotesi ricostruttive di forme spettacolari, prassi sceniche e recitative. Si tratta di riflessioni fondanti per la storiografia teatrale che vedono una loro applicazione pratica nei dieci capitoli del libro in cui sono approfonditi momenti chiave della storia del teatro e dello spettacolo europeo lungo una diacronia che va dal Seicento al Novecento.

Dopo alcuni imprescindibili premesse metodologiche (capp. 1-3), con un focus sull’importanza delle riviste teatrali, spesso trattate «con aristocratico disprezzo da certi settori delle discipline dello spettacolo» (p. 31), Guardenti analizza l’iconografia della Commedia dell’Arte con una particolare attenzione all’area francese, alle attrici e alla musica, elemento consustanziale del fare teatro (capp. 4-7). Attraverso selezionati esempi lo studioso ricostruisce poi le pratiche attoriche tra Sette e Novecento e i loro riflessi figurativi, anche tramite un’icona quale Sarah Bernhardt, una tra le attrici che ha saputo meglio sfruttare le potenzialità promozionali dell’immagine (capp. 8-9). Infine si sofferma sulle prime regie viscontiane analizzandole a partire dalle foto di scena (cap. 10). Il percorso si chiude, e non poteva essere altrimenti, con una selezionata suite di oltre centocinquanta immagini.

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Strehler bio 08
19 Aprile 2021

Quando le pièces di Strehler si «scoprivano» in altri teatri

Andrea Bisicchia, «il Giornale»
Non molti sanno che il nonno e il padre di Strehler fossero stati impresari e organizzatori del Politeama Rossetti, del Verdi e della Fenice di Trieste. Tutti sanno che la mamma era una celebre violinista che, per lavoro, si era dovuta trasferire col figlio Giorgio a Milano, dove il ragazzo di appena sette anni comincerà a conoscere la lingua meneghina che alternerà con quella tedesca, francese e col dialetto triestino. Milano diventa la sua patria di adozione. Studierà al liceo Parini e imparerà dizione, recitazione e cultura teatrale insieme a Franco Parenti all’Accademia dei Filodrammatici, da dove uscirà con la medaglia d’oro perché ritenuto l’allievo: «più ricco di risorse drammatiche, di slancio, di colore, di autorità».A Milano Strehler sposerà la ballerina Rosa Lupo e comincerà a recitare insieme a dei mostri sacri come Annibale Ninchi, Gualtiero Tumiati, Camillo Pilotto, Maria Melato, Marcello Giorda. La sua formazione giovanile era venuta a contatto con la tradizione del Grande attore, quello del teatro «all’antica italiana». Imparerà, così, a girovagare nei vari teatri della penisola. Sempre a Milano conoscerà Paolo Grassi, con cui collaborerà al Circolo Diogene di via Brera e alla Sala Sammartini di via del Conservatorio, dove, insieme ad altri artisti, i Dioscuri, si impegnarono a rifondare il teatro milanese che viveva una situazione di immobilità. Nel 1945 inizierà la sua attività di regista con una serie di spettacoli al Teatro Odeon, al Lirico, al Nuovo, fino al 1947, anno della fondazione del Piccolo, nel quale, durante la prima stagione, metterà in scena ben 6 spettacoli. L’anno dopo, in un convegno organizzato da Grassi alla Casa della Cultura, Strehler inizierà a lanciare gli strali contro lo Stato, accusandolo d’inerzia e invocando la nascita di un teatro nazionale, essendo il Piccolo nato come teatro comunale; evidenzierà la situazione grama della regia in Italia, sottomessa alle esigenze dei capocomici, che la ritenevano marginale, tanto da mettere in difficoltà i giovani registi, i quali non potevano vantare diritti e dovevano accontentarsi di paghe da fame. Mattia Visani ha appena pubblicato, per Cue Press, in occasione del centenario della nascita di Strehler (1921), un volume di Alberto Bentoglio, docente di Storia del teatro all’Università Statale di Milano, dal titolo 20 lezioni su Giorgio Strehler, certamente il più completo, all’interno di una bibliografia già abbastanza vasta sul regista triestino, un libro che ha un preciso scopo didattico, perché destinato agli studenti, ma valido per tutti coloro che vogliano conoscere l’avventura del nostro più grande regista. Bentoglio invita il lettore alla conoscenza del lungo percorso strehleriano, sia nel teatro di prosa che in quello operistico, arricchendo i suoi studi con nuovi documenti. Il percorso è molto accidentato, fatto di sfide continue, condivise con Grassi, per liberare il teatro milanese dallo stallo in cui viveva, per renderlo un servizio pubblico, oltre che una necessità collettiva che abbisognava di una fusione tra arte, politica e organizzazione per l’avvento di una nuova civiltà teatrale che nascesse anche dalla aggregazione di nuove classi sociali. Durante i primi anni, i problemi da risolvere furono tanti, a cominciare da quelli economici, ma la ditta Grassi-Strehler riuscirà sempre a superarli. Bentoglio analizza gli spettacoli, trasportando il lettore dagli anni del realismo poetico, quelli legati a L’albergo dei poveri, alla prima edizione dei Giganti della montagna, a Le notti dell’ira, a Casa di bambola, dove il grido di rivolta di Nora coincide con quello di Strehler. Si tratta di un repertorio vastissimo, dato che, in un anno, egli era capace di curare la regia di ben 10 spettacoli, alternando prosa e opera lirica alla Scala e rinnovando i canoni tradizionali del mettere in scena. Bentoglio si attarda sui grandi eventi, quelli di spettacoli memorabili come La Tempesta, Re Lear, Il Campiello, El nost Milan, Galileo, L’opera da tre soldi, Il giardino dei ciliegi, Come tu mi vuoi, La grande Magia, Faust e altri. Le sue regie rinnovavano i testi, tanto da renderli suoi, perché era capace di scoprire significati nascosti ai loro stessi autori. In verità, Strehler scriveva dei «saggi» sul palcoscenico, svelava i misteri della creazione, eppure, diceva, che la sua metodologia era caratterizzata da «fatti tecnici» e dalla «concretezza dello spazio». A conclusione dell’ultimo capitolo, Bentoglio riporta alcune parole di Ronconi, dedicate al Maestro, pur con la consapevolezza che il loro modo di fare teatro fosse diverso, perché entrambi avvertivano la necessità di: «difendere il teatro dalla volgarità imperante». Tra i due non c’è mai stata contrapposizione, come qualcuno sosteneva, ma consonanza di idee.