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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

Robertmusil
21 Gennaio 2021

Musil drammaturgo: in libreria le nuove traduzioni

Flavia Foradini, «Il Sole 24 Ore»

È tenace non solo in Italia l’idea che Robert Musil sia un autore ascrivibile prettamente al settore della prosa. Il suo folgorante debutto nel 1906 con I turbamenti del giovane Törless, i suoi racconti e le sue novelle, e soprattutto L’uomo senza qualità hanno creato un cono d’ombra che ha oscurato la sua produzione teatrale, comprendente due opere principali che non hanno mai avuto davvero fortuna: I fanatici, imperniata su una disamina del tema del tradimento, pubblicata nel 1921 dopo una gestazione di oltre un decennio, e l’ironica e disincantata Vinzenz e l’amica di uomini importanti, compiuta nel 1923.

Ne era conscio lo stesso Musil, che nei suoi diari definì I fanatici: «Una nebbia di materia spirituale senza scheletro drammatico».

Proprio l’espressione «scheletro drammatico» ha indotto Massimo Salgaro, germanista dell’università di Verona e studioso di Musil con all’attivo numerosi saggi su diversi aspetti della produzione dell’autore austriaco, a addentrarsi nel pieghe del teatro musiliano per cercarne una nuova visione e ‘riposizionarlo’. Per i tipi di Cue Press ha affrontato il tema sia come ricercatore che come traduttore. Robert Musil. Teatro propone sia nuove traduzioni delle due commedie, sia l’inedito Preludio al Mélodrame Lo zodiaco, datato 1920 e quindi antecedente alle due opere principali, mentre nel saggio introduttivo Salgaro si immerge nel contesto storico-letterario che generò gli esperimenti di Musil per le scene, paralleli al lavoro su L’uomo senza qualità.

Smarcare il teatro di Musil dall’etichetta di «Lesedrama»

L’intento è da un lato fornire nuove traduzioni agganciate all’oggi e ‘risintonizzate’ col pubblico odierno, superando quelle di Anita Rho e di Alighiero Chiusano, e dall’altro è quello di smarcare il teatro di Musil dall’etichetta di «Lesedrama», da opere teatrali buone solo per essere gustate attraverso la lettura in solitario. Provando anche a sfatare l’annotazione spietata che Bertolt Brecht appose sulla propria copia di Vinzenz e l’amica di uomini importanti («una merda»), Salgaro propone una scommessa a registi e attori italiani, per una riscoperta che oggi appare certamente più possibile, dati gli sviluppi della drammaturgia, della messa in scena e della recitazione, di quanto non fosse solo qualche tempo fa.

Considerati anche un preludio al teatro dell’assurdo del secondo ‘900, quei lavori teatrali vennero considerati da Musil come opposti a movimenti e tendenze teatrali dell’epoca, da cui tenne a distanziarsi, perché ritenuti privi di idee efficaci. Annotava l’autore: «Dal Naturalismo è nata una realtà senza spirito, dall’Espressionismo uno spirito senza realtà: né l’uno né l’altro ne sono dotati».

A supporto dell’opportunità dell’iniziativa di Salgaro, vi è la base filologica della Klagenfurter Ausgabe, l’opera completa a cura di Walter Fanta, Klaus Amann e Karl Corino, pubblicata nel 2009 dapprima su supporto digitale, e poi (ancora in corso) anche cartaceo grazie all’editore Jung und Jung.

Quella gigantesca raccolta che è riuscita a comprendere anche la «montagna di foglietti» scritti da Musil, ha fornito agli studiosi materiale determinante sulla genesi di tutta la produzione dell’autore. Una preziosa miniera che sta consentendo inoltre di integrare o correggere le edizioni canoniche curate da Adolf Frisé: «Grazie alla Klagenfurter Ausgabe ho potuto tenere in considerazione anche le micro-strutture testuali, nonché gli aspetti tipografici delle commedie».

Ci spiega Salgaro, che vede le opere di Musil percorse da un filo rosso: «È il concetto di ‘altro stato’, inteso come partecipazione totale dell’individuo alla realtà sia razionale che emotiva e di fusione con l’ambiente».

I protagonisti delle maggiori opere di Musil, prosegue Salgaro, «compiono il percorso che li porta da uno stato ‘normale’, caratterizzato da un rapporto reificante con la realtà, allo stato ‘altro’, che consente ai personaggi di dare un senso alla loro esistenza, fuggendo dalle gabbie dello stato ‘normale’ e annullando i confini fra soggetto e oggetto, cosicché la vita può fluire densa di senso. Tutto ciò si ritrova anche nel teatro musiliano e lo rende nostro contemporaneo».

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20 Gennaio 2021

Al limite del teatro di Marco De Marinis. Cronache dell’apogeo e della crisi

Lucrezia Ercolani, «Theatron»
Marco De Marinis è professore di discipline teatrali all’Università di Bologna ed è stato responsabile scientifico del Centro Teatrale Universitario La Soffitta. Nella sua lunga carriera di studioso ha pubblicato numerosi libri di teoria e storia del teatro, con particolare riferimento ai rivolgimenti del secolo scorso. Un’elaborazione tutt’ora in divenire e attenta alla scena contemporanea, basti ricordare che nel 2020 è stato pubblicato da Editoria&Spettacolo Per una politica della performance, saggio che si interroga sul ruolo delle arti performative a favore dell’inclusività e dell’interculturalità nella comunità a venire. Tuttavia alcuni dei testi più datati e noti, come Il nuovo teatro 1947-1970, risultano oggi introvabili nonostante le diverse edizioni stampate. Per questo la scelta di Cue Press di rendere nuovamente disponibile, a più di trent’anni dalla sua prima pubblicazione, Al limite del teatro, utopie, progetti e aporie nella ricerca teatrale degli anni Sessanta e Settanta, mappatura di una primissima storicizzazione delle esperienze dell’avanguardia negli anni ’60 e ’70, risulta particolarmente importante. Oltre alla nuova introduzione di Moni Ovadia, il libro è composto di tre parti piuttosto diverse tra loro. La seconda raccoglie alcuni saggi basati sulla ricerca storica, che rintracciano delle tendenze novecentesche come il conflitto tra regia e attore o il rapporto ambiguo con i classici. La terza parte è quella più eccentrica: il breve cammino delle avanguardie viene raccontato attraverso l’accostamento di foto e citazioni, è un viaggio emozionale che De Marinis ha saputo sapientemente comporre. La prima parte invece contiene diversi saggi scritti tra il ’74 e il ’77 non destinati alla pubblicazione accademica, in cui De Marinis è coinvolto in quanto sta accadendo, ragion per cui è percepibile il calore della vicinanza e di un punto di vista ‘di parte’, accompagnati chiaramente da un grande bagaglio di conoscenze e da una scrittura puntuale. Questi saggi rappresentano quindi un resoconto in ‘presa diretta’ degli accadimenti e soprattutto delle diverse tendenze che già si stavano delineando dopo la crisi, ossia dopo che il teatro è giunto al suo limite (come recita il titolo del libro), alla profonda messa in discussione della propria forma ed esistenza. D’altronde la premessa dell’autore, risalente alla prima pubblicazione del 1983, si apre così: «Questo libro racconta di un teatro che non c’è più». Oltre a questo, aggiungeremmo, traccia i primi percorsi della dissoluzione in atto. Il primo, più radicale, è quello imboccato da alcuni componenti del Living Theatre che già all’inizio dei ‘70 abbandonano il teatro in favore dell’azione politica tout court. C’è poi l’apertura interdisciplinare ad altri linguaggi artistici, passando da Robert Wilson alla Gaia Scienza e i Magazzini Criminali in Italia, strada quanto mai battuta nei decenni successivi. Carmelo Bene con il suo Romeo e Giulietta si ripiega nel metateatro, inteso come «mortifero straparlare su una rappresentazione sentita ormai come improponibile». L’Odin Teatret porta avanti una sorta di doppio binario: da un lato l’esibizione della soggettività degli attori, chiusa in sé e autosufficiente, che si nega al confronto con il pubblico (sarebbe qui interessante cercare i punti di contatto con il reality trend), dall’altro gli interventi nei paesi della Barbagia, basati sul baratto tra interventi teatrali della compagnia e manifestazioni artistiche da parte delle popolazioni locali. È proprio quest’ultimo tipo di approccio, quello del «teatro di animazione» o teatro sociale, che sta più a cuore a De Marinis. D’altronde furono in tanti a seguire quella strada oltre all’Odin: l’altra metà del Living Theatre con il viaggio in Brasile, Peter Brook in Africa, Grotowski con il concetto di swieto e, soprattutto, Giuliano Scabia. L’attività di Scabia è quella che viene maggiormente approfondita nel libro, un saggio gli è dedicato interamente e spesso prende spazio anche negli altri, come ne La società della festa. Utopia festiva e ricerca teatrale, da cui è scelto l’estratto qui pubblicato. La festa è un tema che De Marinis esamina con cura e interesse, prendendo le mosse dai lavori del sociologo Duvignaud e del filosofo Dufrenne. Ne traccia un profilo teorico, da cui la festa emerge come momento rivoluzionario e di rottura delle norme; delinea una storia dei maggiori momenti festivi dei movimenti giovanili in Italia, riconoscendo in Parco Lambro la crisi e la sclerotizzazione; la applica infine alla ricerca teatrale. La festa allora potrebbe essere proprio quel tentativo di fare teatro con le persone, nelle comunità, fuori dall’istituzione, mettendo in discussione i canoni della rappresentazione e ricercando l’espressione autentica di sé attraverso un’esperienza di scambio. Una possibilità che pensiamo sia ancora attuale, nonostante la grande distanza che ci separa da quegli anni pieni di energia rivoluzionaria. Collegamenti
Marilyn monroe
20 Gennaio 2021

Stelle & Stars

Stefano Rizzo, «Pulp Libri»

Ci sono scrittori e critici, storici e studiosi che posseggono capacità di sintesi e approfondimento, intelligenza d’indagine e ricchezza di prospettive. Goffredo Fofi è uno di questi, e da sempre faccio tesoro dei suoi consigli e delle sue opinioni. Sono innumerevoli i libri, saggi, romanzi, fumetti e film che negli anni il suo lavoro di critico militante mi ha fatto scoprire. Parlo in prima persona, come forse non bisognerebbe fare in una recensione, perché con Fofi ho da sempre un rapporto di intimità, nonostante non abbia mai avuto l’occasione di parlarci direttamente.

Film classici o poco conosciuti, libri introvabili o celebri, tutto sta insieme nella visione ampia e al contempo precisa e netta che caratterizza il lavoro di Goffredo Fofi fin dagli inizi. Se da una parte il suo lavoro si concretizzò presto nell’impegno politico attivo (ricordo la sua vicinanza a Danilo Dolci nella Sicilia degli anni Cinquanta e in generale la sua partecipazione alla ‘questione meridionale’), dall’altra fu immediatamente attratto dalle riviste e dal ruolo che esse hanno avuto fino alla fine del Novecento in Italia. Insieme ad altri intellettuali, come Grazia Cherchi e Piergiorgio Bellocchio, ha fondato periodici come «Quaderni Piacentini», «La Terra vista dalla Luna», «Ombre rosse», «Linea d’ombra» e successivamente «Piccione viaggiatore», «Nino domani a Palermo» e «Dove sta Zazà». Negli ultimi anni (1997-2016) ha curato la rivista «Lo Straniero» e ora dirige la rivista «Gli asini» ed è il direttore editoriale delle Edizioni dell’asino. I suoi molti libri hanno riguardato temi diversi, che vanno dalla sociologia e dalla pedagogia all’interpretazione della società contemporanea, da sempre legati dal filo conduttore di un tentativo di costruire o di sottolineare alternative esistenti alla cultura dell’omologazione culturale e del consumismo. È con questo pensiero che Fofi da sempre guarda il cinema e cerca di individuare in esso il rapporto con la realtà del mondo e della società. Ogni suo libro è stato una testimonianza di uno sguardo duro sulla realtà e al contempo forte dell’amore per l’uomo.

Sono molti i libri di Fofi che ritengo straordinari (uno per tutti L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti in tre volumi: insuperata, gustosissima e ricchissima storia orale) ma alcuni non sono più in catalogo e quindi bisogna ringraziare la Cue Press e il suo direttore Mattia Visani per aver riedito due volumi davvero preziosi: Più stelle che in cielo. Il libro degli attori e delle attrici e Cinema e teatro del Fronte Popolare negli anni Trenta del Novecento in Francia.

Se il secondo è un breve ma preciso saggio sull’esperienza del Fronte Popolare e del suo ruolo capitale nel ‘nuovo Rinascimento’ culturale del dopoguerra, raccontato con attenzione filologica da un intellettuale che visse da vicino gli eventi del dopoguerra francese, il primo, già uscito nel 1995 per E/O ma qui riveduto e ampliato, è un florilegio di brevi e perfetti ritratti di alcuni degli attori più iconici del cinema internazionale.

Oggi che il fenomeno del divo sembra tramontato e gli attori di Hollywood, nonostante la bravura e la celebrità, sono solo l’ombra di quello che furono le ‘stelle’ negli anni d’oro dell’industria cinematografica, è intensamente emozionante leggere le pagine dedicate da Fofi alle stars del passato. Cary Grant, Marlon Brando, Marilyn Monroe, Ingrid Bergman, Katherine Hepburn, Paul Newman, Humphrey Bogart, James Cagney, sono solo alcuni dei nomi leggendari rievocati con aneddoti e efficaci ritratti e che oggi rifulgono di luce ancora accecante e non accennano a perdere attrazione in coloro che subiscono il fascino del cinema.

E se qualche nome è appannato dal tempo e dall’oblio, Fofi è capace, con poche frasi, di riportarlo al suo splendore originario, come se un sipario venisse aperto e svelasse con tutta l’evidenza possibile il carattere e la personalità di questi uomini e queste donne che seppero trasformarsi in stelle, anche a spese della propria stessa vita.

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Totò 3
19 Gennaio 2021

Il teatro di Totò, 1932-1946

Sergio Roca, «Liminateatri»

Su Totò ci sono decine di libri (e di studi) che cercano di ricostruire l’immagine del grande comico napoletano sia dal punto di vista professionale che da quello umano e personale.

Il volume Il teatro di Totò, 1932-46 di Goffredo Fofi nella collana «I saggi del teatro» per Cue Press, invece, si focalizza sui testi usati dal grande artista negli spettacoli di varietà e rivista che lo vedevano protagonista di scenette e gags dal periodo fascista all’instaurarsi della Repubblica. Il maggior pregio di questo lavoro è proprio insito nel fatto che si rendono disponibili i ‘canovacci’ teatrali degli anni meno documentati dell’attività artistica del grande Principe De Curtis.

La pubblicazione, dopo un breve ma interessantissimo excursus sulla maschera di Totò, in cui si sottolinea che: « … al contrario dei due altri comici napoletani suoi contemporanei, Raffaele Viviani – cantore di una condizione umana sottoproletaria e contadina sfaccettata e complessa – ed Eduardo – cantore di una piccola ed infima borghesia prigioniera della sua logica familista – Totò non mirò al carattere del personaggio: scelse la maschera e nel suo teatro, sia quello scritto in prima persona che in quello di Michele Galdieri, non scese mai a patto con il carattere ed il personaggio… » (almeno nel teatro), si dedica ai testi delle scenette presentate grazie alle ricerche, fatte dall’autore, presso l’Archivio Centrale dello Stato facendo riferimento a quelli depositati, all’epoca, presso il Ministero della Cultura Popolare organo censorio autorizzativo per tutti gli spettacoli da mettersi in scena nel ventennio fascista.

Il libro infatti, in una meritevole ricostruzione ‘archivistica’, ripropone le scritture pensate per essere utilizzate dagli attori senza curarsi troppo del reale uso delle parole ‘fissate’ su carta (seppur quelle sarebbero dovute essere usate pena la cessazione delle repliche se non l’arresto) ma per creare delle situazioni da ‘costruire’ in scena basandosi sulle tecniche ‘improvvisatorie’ degli interpreti così come previsto della Commedia dell’arte e dei comici girovaghi.

C’è da dire che a Napoli l’amore per quel tipo di antiche arti sceniche e l’uso della maschera (grazie alla tante farse basate sulla figura di Pulcinella), sopravvisse ben oltre l’inizio dello scorso secolo anche a dispetto della ‘rivoluzione’ settecentesca goldoniana e quella precipuamente partenopea, ottocentesca, scarpettiana che cercò di curare la transizione di Pulcinella alla ‘società civile’ con la figura di Felice Sciosciammocca.

Nei tanti ‘canovacci’ presentati alla censura, infatti, frequenti sono i punti testuali ‘assenti’ sostituiti dalla voce ‘a soggetto’ o simili che indicano gags fisiche (ma anche – seppur più raramente – verbali) basate sulle capacità improvvisatorie di allungare a dismisura la situazione e, nel contempo, indispensabili per suscitare negli spettatori ilarità e applausi. Una comicità, come scrive lo stesso Goffredo Fofi, che Totò aveva costruito sul suo corpo disarticolato e su una maschera naturale in quanto: «Il suo volto già [aveva] (come quello di un Buster, un Fatty, di uno Stanlio […] ) gli elementi di irregolarità, di deformazione necessaria alla maschera…»

Questo accostamento fra vari attori suoi contemporanei risulta particolarmente interessante se si mettono a paragone i testi delle gags scritte da Totò per il teatro di varietà e per il mondo della rivista con Anacleto Francini, Guglielmo Inglese, Paolo Rampezzotti e, soprattutto, con Michele Galdieri (noto per aver scritto le parole di Munasterio ‘e Santa Chiara ed anche Ma l’amore no), con quelli ideati da Stanlio (alcune reperibili nel volume Stan Laurel, viaggio nel cosmo comico di Stanlio di John McCabe ed edito in Italia da Sagoma Editore).

L’opera, per organicità e per il periodo considerato, è meritoria non solo di essere letta da chiunque voglia conoscere o approfondire le tecniche artistiche e autoriali del grande Totò, ma anche da chi è interessato al teatro musicale italiano in genere (culminato con il grande filone della commedia musicale di Garinei e Giovannini), in quanto rende palese la lenta ma inesorabile transazione dei testi comici a partire dalle macchiette dal Café Chantant per passare alle gags ‘slegate’ dalla narrazione del teatro di varietà e terminare con quelle più organiche della rivista.

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12 Gennaio 2021

Gli sposi di David Lescot

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Gli sposi del titolo della commedia di David Lescot sono Nicolae Ceausescu e Elena Pitrescu, ossia l’ex presidente della Repubblica Socialista di Romania, in carica dal 1967 al 1989, e la moglie, la vera eminenza grigia del regime. Nel testo del drammaturgo francese – anche qualificato regista e musicista legato al prestigioso Théâtre de la Ville – i due personaggi assumono i nomi generici di LUI e di LEI e animano una sequenza di ventotto dialoghi che seguono il percorso storico della loro vicenda umana e politica.

Il linguaggio del testo modella battute scarne, essenziali, funzionali alla creazione di uno spinoso tappeto narrativo giocato sul rimbalzo continuo tra la dimensione pubblica della politica e la sfera delle relazioni private. Nella gestione del potere ricadono i capricci e le manie di una coppia mascherata, la cui azione produrrà il deragliamento drammatico della Romania socialista. La scrittura di Lescot lambisce le sponde del teatro civile, non esprime posizioni ideologiche: tesse un reticolato di immagini cariche di ferocia e di ironia dalle quali emergono i profili di due figure grottesche, a tratti sinistre e ordinarie, deboli e forti.

Aleggia il rimando allo shakespeariano Macbeth nelle dinamiche interpersonali caratterizzate dall’influenza di una donna determinata e capace di sottomettere il marito trasformandolo in invisibile-visibile burattino. Alla fine del loro percorso storico, culminato con la fucilazione di Timișoara, gli sposi diventano essi stessi inquietanti burattini della Storia.

Il racconto cronologico si enuclea da quando la coppia si è conosciuta all’inizio della militanza politica nel Partito Comunista, dalla presa del potere di Ceausescu alla morte. In mezzo ci sono quadri di grande forza narrativa che completano la cornice storica ricordando, per esempio, la Primavera di Praga del ’68, a proposito della quale LEI chiede: «Ti decidi o no? Lasci che l’alfiere si faccia mangiare dalla torre senza muovere un dito? Condanni pubblicamente i Russi o condanni vilmente i Cechi?»

Oppure, altrettanto emblematico è un passaggio del quadro 23. Siamo nel 1983.

LEI Allora, cos’è il socialismo?
LUI Non lo so.
LEI È una stanza nera nella quale bisogna cercare un gatto nero.
LUI Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! È veramente buona! Ah! Ah! Ah!
LEI Ma no, non è finita. È in tre parti.
LUI Ah d’accordo.
LEI Seconda domanda: cos’è il socialismo multilateralmente sviluppato?
LUI Non lo so.
LEI È una stanza nera nella quale bisogna cercare un gatto nero.
LUI Non è finita ancora? Non c’è ancora da ridere? Ce n’è ancora una parte?
LEI Sì, ce ne manca una parte: che cos’è la Romania?
LUI Non lo so.
LEI È una stanza nera in cui tutti cercano un gatto nero anche se sanno benissimo che non sta là dentro.
LUI È finita?
LEI Sì.
LUI Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Sì bellissima! Ah! Ah! Ah!

Si arriva alle batture finali che culminano nel processo sommario e nella fucilazione de Gli sposi che, dice la didascalia, «rimangono morti per un po’ di tempo, poi si rialzano» e, come due fantasmi, si interrogano su dove possano essere sepolti i loro corpi.

Finalista del Premio Ubu 2019 come migliore spettacolo straniero, il testo di Lescot è stato allestito nel 2018 da Elvira Frosini e Daniele Timpano, ai quali compete la cura e la bella postfazione di questo volume pubblicato dall’intraprendente Cue Press, che si completa con l’introduzione di Attilio Scarpellini, anche autore della traduzione di questa intrigante a appassionante commedia inedita per il lettore italiano.

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4 Gennaio 2021

Una vita per il teatro del critico De Monticelli. Testimoniò l’evolversi dell’attore: dall’istrionismo all’avvento del regista

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

La ristampa di un libro come L’Attore, di Roberto De Monticelli (1919-1987), da parte di Cue Press, è uno stimolo, molto allettante, per ritornare a parlare di una figura controversa, ma necessaria, per fare teatro. Il libro uscì nel 1988, con prefazione di Odoardo Bertani, presso Garzanti. O oggi esce, aggiornato, con l’introduzione del figlio Guido, attore e regista, che ripercorre le tappe di chi concepì la critica, non solo come una professione, ma come una missione, iniziata negli anni Trenta, quando, ragazzino, si aggirava tra i camerini che sapevano di cipria e di muffa, seguendo il lavoro dei propri genitori attori, ultimata verso la fine degli anni Ottanta, quando, critico affermato, ritorna più volte sul luogo del delitto, ovvero sulla figura dell’attore, del suo percorso lungo e faticoso e delle sue trasformazioni tra il primo e il secondo dopoguerra.

De Monticelli era un critico sempre insoddisfatto, anche quando il teatro viveva un suo momento di splendore, dopo l’avvento degli Stabili. Se gli andava bene il teatro di regia, non gli andava bene il pubblico, quello degli anni Sessanta, del miracolo economico, un pubblico da parata, poco aggiornato, di tradizione borghese, indifferente a quel che di nuovo accadeva sulla scena, un pubblico che arrivava con macchinoni da dove uscivano donne impellicciate e ingioiellate che andavano a vedere le ‘prime’ della Morelli-Stoppa, della Proclemer-Albertazzi, della Falk-Valli-De Lullo o del mattatore Gassman, per fare sfoggio di sé, un pubblico industrial-mercantile, oltre che di professionisti che giocavano in Borsa. Eppure qualcosa si muoveva dato che, al Piccolo Teatro, era possibile ravvisarne un altro più impegnato, più intelligente, più aggiornato, capace di seguire i dettami di una critica che voleva essere una ‘guida’ diversa da quella che spesso si mostrava assurdamente encomiastica.

Questo pubblico è stato testimone dell’evolversi della figura dell’attore e dei suoi stili, da quelli naturalistici e mimetici, di una volta, a quelli che si adeguavano alle esigenze della regia critica, magari rinunziando alla propria creatività istrionesca, consapevoli di far parte di un progetto interpretativo comune, adattandosi, pertanto, alla forza maieutica di registi come Visconti, Costa, Strehler, De Lullo, Enriquez, Castri, Missiroli, fino a perdere una parte della propria identità, con il bisogno, successivamente, di recuperarla, quando, dopo il 1968, con l’avvento della seconda avanguardia, l’attore scopre il potere del corpo e del gesto, tipico della generazione degli anni Settanta, oltre che la necessità di ridurre al minimo il valore della parola, affidandosi alla espressività proveniente da discipline diverse, preferendo il significante al significato.

Il nuovo attore non è più quello del palcoscenico, bensì quello delle cooperative che preferisce portare il suo lavoro nei quartieri, nelle fabbriche, nelle strade, negli spazi anonimi di vecchi cinema abbandonati, o quello delle cantine che, proprio fuori dagli spazi organici, ritrova una nuova dimensione di sé. Direi che, in tutte le epoche di crisi e di trasformazioni sociali, si assiste all’alternanza tra attore di tradizione e attore di innovazione, tra attore che recita e attore che diventa animatore sociale, se non politico, generando quella confusione che si è estesa fino ai giorni nostri.

In questi momenti di trapasso, l’attore prende consapevolezza del mutamento della propria professionalità, meno propensa a rincorrere l’artisticità, più attenta a teatralizzare la vita, piuttosto che recitarla, il cui vero significato occorre ricercarlo altrove. Anche l’attore di oggi sta vivendo questo travaglio, che sa di filo spezzato, di crisi d’identità, dovuta, in particolare, al modificarsi degli arnesi del mestiere.

De Monticelli l’aveva individuato negli anni Settanta, anche se, un decennio dopo, nel 1982, sulle pagine del «Corriere della sera», pur con il suo solito scetticismo, riporta al centro della scena la figura dell’attore ‘guida’, non più ‘santo’, non più di strada, bensì l’attore reclamato a forza dal pubblico, stanco della non professionalità, della frammentazione, che vuole essere catturato dal suo istrionismo, che chiede garanzie e sicurezze.

De Monticelli avverte dei rischi, in questa volontà di recupero, dovuti all’attenuarsi del magistero registico e alla necessità di un giusto equilibrio tra teatro d’attore e teatro di regia.

Questo libro va consigliato alla nuova generazione, quella del terzo millennio, che ha scelto di fare teatro, quella che ha smarrito la potenza della professionalità, con un enorme costo da pagare, soprattutto, quando volere essere ‘diverso’ è conseguenza di limitazioni e di inconvenienze. Ma ancora più necessario per chi, in questo momento, vivendo, orfano del teatro, si trova in scena alquanto solo e smarrito.

Ho sintetizzato lo spirito del libro, dove, però, è possibile trovare una galleria di ritratti dedicati agli attori di ieri e di oggi, quelli della generazione di De Monticelli che ha seguito, con spirito missionario, fino al giorno della sua morte.

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1 Gennaio 2021

Robert Musil, l’ingegnere del teatro

Fabrizio Sebastian Caleffi, «Hystrio», XXXIV-1

Della Kakania fa parte la Padania e Musil è dunque conterraneo di Gadda: due ingegneri con più genio che ingegno, per loro e nostra fortuna. Quand’ero regista pischello all’esordio, dopo aver debuttato come autore precoce, avevo già in mente di mettere in scena Vinzenz e l’amica degli uomini importanti. L’eroticissima Escort per uomini importanti, come intendo titolare la mia versione in progress della farsa in tre atti, rappresentata per la prima volta a Berlino nel 1923, è la storia di Alpha, efebica femmina alpha, e dei suoi ‘amici’ e corteggiatori. Ci sto mettendo una vita e una carriera intera a riuscire a metterla in scena e presto, spero, ce la farò. Ma voi leggete e precedetemi se potete. La finis Austriae ha prodotto una grande civiltà in Jugendstil, al tramonto dell’Occidente potrebbe seguire un’alba rinascente (un pop Rinascimento da grandi magazzini?). Dipende dalle fonti a cui ci si abbevera: antidoto ai fanatismi, I fanatici, altro capolavoro teatrale dell’autore della fondamentale opera aperta L’uomo senza qualità, è un gran bel testo da studiare per sviluppare la Memoria, non da imparare a memoria, con le sue dinamiche interpersonali giocate sul senso dell’adulterio. Viceversa, Vinzenz è opportunità di sviluppo di ruoli brillanti dal retrogusto amarissimo, in serrato confronto della protagonista femminile con ruoli maschili prototipi della miglior commedia all’italiana. Particolare significativo di questa raccolta, che vi consiglio vivamente, è la pubblicazione, insieme ai due copioni fin qui citati, di Preludio al mélodrame. Lo Zodiaco (1920), primo lavoro pubblicato da Robert Musil (1880-1942). Buon teatro non mente, lettori!

Pasticciaccio
28 Dicembre 2020

C’era una volta il dramma. Poi si frantumò in un ‘pastiche’ fatto di tutte le arti possibili e con testi reinventati in scena

Andrea Bisicchia, «lo Spettacoliere»

Negli anni Sessanta, in molti ci siamo formati su una serie di testi saggistici, diventati veri e propri punti di riferimento per integrare la nostra formazione di stampo storicistico. Si tratta di: Teoria del dramma moderno di Peter Szondi (1962), Scritti teatrali di Bertolt Brecht (1962), Morte della tragedia di George Steiner (1965), ai quali aggiungerei, anche se pubblicato alcuni anni dopo, Introduzione al dramma di Von Balthasar (1978), la cui visione spirituale era ben diversa da quella marxista degli autori citati, ma che vengono ripescati da Jean-Pierre Sarrazac e da un Gruppo di Ricerca dell’Università Tre di Parigi che, nel volume pubblicato da Cue Press, Lessico del dramma moderno e contemporaneo, a cura di Davide Carnevali, con contributi di Marco Consolini e Gerardo Guccini, ritornano sull’argomento per capire come si sia sviluppata la crisi del dramma fino alla concezione del Post-drammatico teorizzata da Lehmann.

Se, per Szondi, la crisi del dramma era conseguenza degli assetti sociali che avevano portato al concetto di epicizzazione e, pertanto, a un disaccordo tra l’universo soggettivo e quello oggettivo, posizione ben diversa da quella di Von Balthasar che la individuava in un nuovo assetto spirituale, per Sarrazac, il concetto di crisi andava esteso a: «una crisi senza fine, senza soluzione, senza un orizzonte prestabilito», profetizzando quanto sta accadendo ai giorni nostri, caratterizzati da punti di fuga sempre imprevedibili.

Per arrivare a simili considerazioni, Sarrazac parte dall’analisi dell’uomo e del personaggio del XX secolo, da quello ‘psicologico’ ed ‘economico’ a quello ‘massificato’ e ‘separato’, evidenziandone la scissione che non riguarda più l’identità, ma l’estraneità che, a sua volta, porterà alla crisi della trama, ovvero della ‘fabula’, per aprire le porte a una drammaturgia fondata sulla crisi del dialogo, sulla frammentarietà e sulla materialità.

Il dramma, più che una rappresentazione, diventa un ‘materiale’ su cui lavorare attraverso un processo di assemblamento e di decostruzione. A sua volta, la crisi del dialogo, ha favorito la forma del monodramma che fa ricorso a incroci e ibridazioni di ogni tipo. C’è un altro punto da cui partire per andare oltre l’analisi di Szondi ed è quello del Teatro documento che ha il suo prototipo nell’Istruttoria (1965), di Peter Weiss, che utilizzava già materiali diversi, drammatizzati con l’uso del montaggio.

Insomma, il dramma non si presenta più nella sua organicità, ma attraverso collages apparentemente non omogenei, ma i cui punti di raccordo erano ben evidenti, benché l’azione teatrale si manifestasse in maniera discontinua, sia nelle tematiche che nella struttura compositiva, non più costruita sulla conflittualità, ma sulla tensione dovuta ai materiali che venivano presi dai documenti storici e dalla cronaca. Accadeva che la struttura del dramma venisse frantumata a vantaggio del pastiche e di corpi estranei, grazie alla combinazione di elementi diversissimi. Si trattava di un teatro fatto con detriti, con assemblaggi dove la teatralità cedeva il posto al ‘teatrocentrismo’, in cui il testo veniva reinventato direttamente sulla scena, non più luogo di trascrizioni, ma di interventi che utilizzavano tutte le arti possibili, grazie alle nuove tecnologie e all’uso delle videocamere. Il ‘teatrocentrismo’ vuol presentarsi come l’opposto della teatralità ritenuta un genere fatto di enfasi, di autocelebrazione, di narcisismi e di convenzionalismi.

Il Lessico, che dà il titolo al volume, è formato da ben 57 lemmi elencati in forma alfabetica, si va da Azione a Voce, passando attraverso una serie di contributi di 24 personalità del mondo dello spettacolo, quasi tutti docenti universitari. Gli interventi di Consolini e di Guccini aggiungono un loro tracciato teorico a quello indicato da Sarrazac.

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Copertina articolo toto a colori
27 Dicembre 2020

Chi è di scena? Totò

Enrico Fiore, «Corriere del Mezzogiorno»

Antonio De Curtis, in un immaginario dialogo con la maschera Totò, le fa dire: «‘Vedrai che il pubblico alla fine ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di piacere’. Disse proprio il verbo patire, quel buffone, ignorantissimo di filosofia come tutte le maschere, ma armatissimo di esperienze preziose, cioè a dire ricco di guai, di beffe subite, di appetito arretrato, esperienze che servono alla legge del contrasto comico. In fondo senza la miseria e le disgrazie non esisterebbe Pulcinella».

E altrove il principe De Curtis spiega che «quella maschera con la bombetta e i calzoni larghi» è «la rappresentazione comica di un certo piccolo borghese italiano, timido, aggressivo, pauroso e alla fine ridicolo».

Goffredo Fofi – curatore del volume Il teatro di Totò. 1932-’46, appena uscito per i tipi della Cue Press di Mattia Visani – colloca queste citazioni in posizione fortemente icastica, all’inizio della sua densa introduzione. E giustamente le considera come un riscontro probante dell’argomento centrale della propria analisi: «Sociologicamente Totò è a cavallo tra l’esperienza sottoproletaria e quella piccolo-borghese, tra le quali, com’è noto a chi conosce Napoli, gli elementi di somiglianza sono fortissimi, e fortissimo è il tentativo piccolo-borghese di negarli per distinguersi dalla insicurezza della prima. Ne derivano due tipi diversi di aggressività: quella di chi da una condizione di precarietà assoluta tende alla soddisfazione dei bisogni primari, e di conseguenza risponde solo alla morale del bisogno; e quella di chi sente perennemente minacciata la sua minimale sicurezza da forze oscure e generiche non mai precisamente definite (lo Stato, chi comanda, i ‘caporali’, gli ‘altri’».

Ecco, su questa dicotomia si fondò il teatro a cui diede vita Totò. E dunque non sto a sprecare parole sull’importanza del volume curato da Fofi: a colmare la lacuna che interessa la stragrande maggioranza degli spettatori, i quali conoscono solo il Totò dei film che vengono riproposti senza posa sugli schermi televisivi, ci offre un’ampia antologia degli sketch scritti o interpretati dal non meno straordinario Totò dell’avanspettacolo, del varietà e della rivista. E si tratta di testi che fino a ieri conoscevano solo gli studiosi, in quanto provenienti dall’Archivio Centrale di Stato, dove sono state recentemente depositate le buste contenenti la maggior parte dei copioni passati in censura al Ministero della Cultura Popolare negli anni del fascismo.

Certo, parliamo di testi che, in genere, consistono in semplici canovacci, destinati ad essere sviluppati dall’improvvisazione in scena; e che, per giunta, scontano il limite d’essere, per così dire, un’anima priva del corpo incomparabile a cui si riferì Eduardo De Filippo con la sua famosa definizione di Totò: «Creatura irreale che ha la facoltà di rompere, spezzettare e far cadere a terra i suoi gesti e raccoglierli poi per ricomporli di nuovo e assomigliare a tutti noi».

Faccio al riguardo un solo esempio, citando un passo dello sketch Il gagà e la signora compreso nella rivista di Michele Galdieri Quando meno te l’aspetti… (1940):

– Gagà: Signorinella pallida…
– Signora: Vi prego, giovanotto, son signora…
– Gagà: È meglio. Troverò la strada libera per starti accanto almeno un quarto d’ora…
– Signora: E sia… ma un nido tiepido vogliate offrire a questa capinera…
– Gagà: Ho qui la stanza con l’ingresso libero…
– Signora: La garsonnière, ossia… giovanottiera!
– Didascalia: Si apre il siparietto scoprendo una desolata camera mobiliata. Mobili sgangherati. Alla parete un quadro di Don Giovanni.
– Signora: Oh! Che schifezza…
– Gagà: Nel civettuolo nido dell’ebbrezza voi sognerete tanto accanto a me…
– Signora: Vorrei sognare… ma ogni tanto scrocchiano le molle del sommier….

Sì, niente di che. Ma, se è possibile, proviamo a immaginare che cosa diventavano queste innocue battutine quando a pronunciarle era il Gagà interpretato da Totò. Che per giunta aveva al fianco, nel ruolo della Signora, una certa Anna Magnani.

Tuttavia, anche nei semplici canovacci raccolti nel volume in questione è dato rintracciare l’inconfondibile e irresistibile tensione satirica e dissacratoria tipica di Totò. E qui di nuovo mi limito a un solo esempio, quello della rivisitazione del classico sketch napoletano ’A cammera affittata a tre compresa nel copione de La banda delle gialle curato da Paolo Rampezzotti (pseudonimo: Tramonti) e portato in scena dalla compagnia di Totò, nel 1933, all’Eliseo di Roma. Totò interpreta il personaggio di Mardocheo Stonatelli, direttore di banda. E quando un altro personaggio, Vermicelli, gli si presenta dichiarando sussiegoso: «Io sono avvocato», replica prontissimo: «E io sono una persona per bene. Vi affidano anche le cause?». E se l’altro lo informa che ha due figli, chiede provocatoriamente: «E sono vostri?». E se, infine, l’avvocato Vermicelli gli offre la sua assistenza legale, chiude il discorso con un drastico: «No, di guai ne ho passati abbastanza».

Peraltro, il volume curato da Fofi si rivela prezioso perché consente di farsi un’idea precisa del lavoro indefesso e accortamente strategico svolto dalla censura del regime. La quale, sempre per fare degli esempi, lascia correre il doppio senso gaglioffo ostentato dall’avvocato Vermicelli che risponde: «Arrangiatemi in qualche buco!» alla cameriera che gli ha detto: «Mi dispiace, l’albergo è tutto pieno…», ma interviene prontamente e pesantemente nel caso dello sketch Il fatto è successo a San Babila compreso ancora in Quando meno te l’aspetti…. Un tizio dice a Totò: «Radio Londra ha comunicato che stamani alcune squadre di fascisti requisivano e bruciavano le copie di un grande giornale… che pubblicava un articolo favorevole al nemico». E la censura di Mussolini corregge «fascisti» con «cittadini» ed elimina l’ultima parte della battuta: «che pubblicava un articolo favorevole al nemico». Così come, nel 1938, aveva messo le mani nel copione della rivista di Totò L’ultimo Tarzan, cancellando la battuta: «Capisco. Eravate un vero autarchico!» e arrivando persino a sostituire «Redipuglia» con «Redimorto».

Concludo. Il teatro di Totò riflette – e davvero non è l’ultimo dei suoi meriti – sul caso raro dell’attore che, smettendo d’essere un tramite neutro fra il testo scritto e il palcoscenico, quel testo è addirittura capace di riscriverlo: nel senso che, improvvisando come i comici dell’Arte, potenzia e rilancia il dettato dell’autore. E al riguardo mi torna in mente il Beniamino Maggio che, dopo essere stato anche lui fra i protagonisti eccelsi del teatro cosiddetto ‘leggero’, nel 1979 interpretò il personaggio del contrabbassista Ferdinando in un allestimento de La musica dei ciechi di Viviani intitolato La parabola dei fringuelli ciechi e diretto da Michele Del Grosso.

La potenza di quell’atto unico, fra i capolavori assoluti del teatro europeo, sta nel fatto che i suonatori ambulanti ciechi portati alla ribalta da Viviani parlano e si comportano, sempre, come se ci vedessero. Quando Ferdinando parla delle fotografie che fecero al suo matrimonio, il mandolinista Antonio gli domanda: «E comme venettero?». E se il Ferdinando di Viviani risponde: «E chi ‘o ssape?», il Ferdinando di Beniamino Maggio rispondeva: «Si viene â casa t’ ‘e ffaccio vede’».