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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.


Le qualità nascoste dell’ingegner Musil
Nella favolosa galleria di campioni che ci regala Elias Canetti nel Gioco degli occhi, a proposito di Robert Musil si legge: «Era sempre in armi, pronto alla difesa e all’attacco».
Nel primo dopoguerra quello che diventerà l’autore de L’uomo senza qualità trasforma la sua postura di ex militare in una specie di corazza mentale, una disciplina interiore che lo induce ad affrontare la vita, anche nei momenti più difficili, «come un greco antico».
Di formazione ingegnere, ma in seguito laureatosi anche in Filosofia, dopo l’esperienza della Grande guerra sul fronte italo-austriaco (come l’ingegner Gadda), rinuncia a un’allettante carriera accademica per consacrarsi anima e corpo alla scrittura. Canetti sottolinea in più luoghi della sua memorabile autobiografia l’importanza della precarietà per questo tipo di vocazione, l’arrischiamento senza rete nel quale lo scrittore deve saper credere per gettarsi nella propria ricerca. A tal proposito ricorda che, prima a Berlino e poi a Vienna, fu organizzata la Musil-Gesellschaft, una società di amici – intellettuali, artisti, tutt’altro che facoltosi mecenati – che si autotassavano per sostenere il lavoro dell’autore de L’uomo senza qualità, il cui primo volume, uscito nel 1930, aveva ottenuto un grande successo di critica ma non certo di pubblico.
È un fatto che mi piace ricordare non solo per la luce che sprigiona, ma soprattutto per la coda divertente raccontata da Canetti. Pare infatti che Musil tenesse la lista mensile dei pagamenti e ai «morosi» mandasse la moglie affinché ottemperassero agli impegni presi. Parliamo insomma di un uomo a cui non faceva difetto la consapevolezza e che, forse grazie a questo, ha saputo ironizzare sulle proprie difficoltà economiche anche nei tempi in cui era praticamente uno sconosciuto.
Ed eccoci quindi dieci anni prima, nel 1920, quando Musil scrive la sua prima pièce teatrale, dove il protagonista, in un dialogo acceso con la Miseria, la rampogna così: «Per Dio, infatti hai iniziato ad amarmi solo da quando ho compiuto trent’anni. E come hai tramato sobriamente! All’inizio solo una visita fugace ogni mese o due, che mi scaldava, ma senza stancarmi. Poi un paio di ore di compagnia al giorno. E da un certo punto eri tutte le notti a letto con me e non era più possibile spingerti fuori dalle doghe».
Sto citando da Preludio al melodrame Lo zodiaco, testo inedito e mai rappresentato in Italia, che ora viene pubblicato insieme alle altre due opere teatrali di Musil, I fanatici e Vinzenz, in un libro a cura di Massimo Salgaro, per i tipi dell’editore bolognese Cue Press. Si tratta di un testo di non facile messinscena, tanto che con grande schiettezza lo stesso Salgaro, nel saggio introduttivo, ne sottolinea le scarse potenzialità drammaturgiche e ne suggerisce paradossalmente una sua più idonea fruizione sulla pagina scritta. È peraltro un modo intelligente per trasformare il limite del Lesendrama (dramma da leggere) in una risorsa, favorendo una migliore contestualizzazione di queste opere nella produzione letteraria dello scrittore austriaco.
Il preludio al melodramma è pensato, come si capisce dal titolo, per una combinazione di musica e parola, con parti cantate e parti recitate che non sono collegate da nessi logici né da un’azione scenica. I personaggi non vengono tratteggiati, mancano volutamente di spessore, essendo niente più che figure allegoriche: la Morte, il Freddo, la Donna, il Figlio, il Giudice, eccetera. Ognuna di esse si ferma sulla scena il tempo di un dialogo fugace con il protagonista, l’Uomo, dando vita a una girandola di voci dalle battute salaci, talvolta sprezzanti, apparizioni che hanno la stessa ferocia, la stessa tagliente bidimensionalità, dei volti che compaiono sulle tele di George Grosz.
Dopo un primo battibecco dal sapore beckettiano, l’Uomo si ritrova a ripercorrere in solitudine le figure centrali della sua vita, sulla scia del modello strindberghiano dello Stationendrama. Allo spettatore-lettore non resta che accompagnare il protagonista nel suo viaggio in un passato pieno di acuti e stonature, parto della sua memoria strimpellante. Spezzati, infatti, i nessi della drammaturgia, anche Musil rinuncia ai rapporti intersoggettivi nel segno del teatro espressionista che, come dice Peter Szondi nella Storia del dramma moderno, «tratta l’uomo come un’entità astratta».
Il Preludio risente molto dell’espressionismo – del suo assunto formale, non già della moda – benché sia evidente, e in molti passi esplicita, la volontà dell’autore di superarlo. L’azione sostituita dal racconto, il doppio registro, tragico e comico, il ritorno al monologo (espunto dal teatro naturalista), i personaggi ridotti a puro schema, all’interno di canovacci che solo nella rappresentazione trovano la loro compiutezza artistica: questi tratti sono facilmente riconducibili al movimento dal quale Musil intende prendere le distanze.
Siamo nel 1920, lo stesso anno del Gabinetto del dottor Caligari, il capolavoro di Robert Wiene, un cinema fatto di lunghe inquadrature fisse, dove gli attori recitano con le facce truccate fino a diventare mascheroni, prigionieri di scenografie che amplificano i loro sguardi allucinati. L’idea di un mondo che vale per sé, che non è copia di nessuna realtà ma nasce, al contrario, nell’attimo stesso in cui va in scena. Da poco è stato fondato Die Brücke, il ponte verso un futuro perfetto, secondo l’auspicio nietzschiano da cui traggono ispirazione Hermann Obrist, Ludwig Kirchner e gli altri fondatori del movimento, pittori animati in egual misura di sentimenti neoromantici e violenta critica al realismo impressionista.
È questa la temperie culturale in cui nascono i drammi di Musil. Ma la sua indole di solitario antagonista lo mette al riparo da ogni mimetismo. Musil non cerca lo scontro frontale con la tradizione, le istanze di rinnovamento dell’espressionismo gli paiono per molti aspetti già superate. È lontanissimo, lui ingegnere, dallo spiritualismo antiscientifico. Trova ridicola l’opposizione tra l’uomo della tecnica e l’uomo nuovo. Non condivide la protesta antiborghese né tantomeno l’afflato giovanilista. Anche riguardo alla profezia di Zarathustra, vessillo degli espressionisti, lo scrittore austriaco reinterpreta le parole di Nietzsche alla luce della sua gelida ironia, in modo che l’Ubermensch (non super– bensì oltre-uomo, come ci ha insegnato Gianni Vattimo) non assuma i connotati di una gioiosa comunità postera, semmai sospinga l’individuo verso una più radicale solitudine. «Voglio morire da solo».
Grida a un certo punto il protagonista e, ahinoi, così sarà. In pieno stile musiliano, l’ultima stazione è un dialogo tra due fiocchi di neve in lenta discesa sul cadavere che puzza di grappa. L’effetto sullo spettatore-lettore è garantito: si sta così male che si ride. Certo, si tratta di una lettura anomala, tuttavia per gli appassionati può essere un ottimo modo per concedersi il teatro in casa, magari alternandola alle visioni degli spettacoli in streaming o comunque ripescati in rete.
Teatro da leggere
Sarà anche una nicchia (il 3,3% dei libri per adulti pubblicati in Italia), ma l’editoria teatrale di questi ultimi anni non ha subito né tracolli, né soste, è rimasta attiva e ci ricorda che il teatro non è solo il palcoscenico (ahinoi chiuso ora per misure antiCovid) ma anche la bellezza di commedie, drammi, biografie di artisti, avventure sperimentali di pionieri… Storie, non solo breviari per i fedeli del genere. Restiamo alla drammaturgia – i testi cioè che poi si mettono in scena – mai stata così viva in Italia e in Europa. È un’appassionante e tragica saga famigliare che si incrocia alla storia del Novecento e a una riflessione sulla perdita di senso del linguaggio Architettura di Pascal Rambert, autore di punta francese da leggere nel volume Teatro. Publicato da Sossella Editore è nella collana Linea che, in collaborazione con Ert-Emilia Romagna Teatro, è una fucina di novità della drammaturgia contemporanea e scoperte di autori: freschi di stampa sono Wet Market. La fiera della (nostra) sopravvivenza dove Paolo di Paolo fa raccontare successi e cadute della scienza e della medicina ai personaggi di un mercato, e La mia infinita fine del mondo di Gabriel Calderón appena messo in scena da Lino Guanciale. Chi ammira da sempre il suo teatro scritto sul corpo dell’attore deve leggere Bestiario teatrale (Rizzoli) con i testi degli spettacoli di Emma Dante. Alcune pagine fanno dire: oddio non capisco, per via della lingua, ma poi cattura proprio quel siciliano intrecciato all’italiano in lavori come ’M Palermu e Le sorelle Macaluso. Black humour puro con Franca Valeri: se il grosso del suo lavoro è in Tutte le commedie (la Tartaruga), il consiglio è di godersi La Ferrarina-Taverna (Einaudi): una ostessa – una delle sue donne antipatiche e scanzonate – travolge di chiacchiere una coppia di commensali in crisi senza rendersi conto di quello che accade. Sempre bello da leggere Robert Musil, lo scrittore di L’uomo senza qualità: nella raccolta Teatro c’è anche l’inedito per l’Italia Preludio al mélodrame Lo zodiaco. È una novità di Cuepress che ci accompagna nel campo dei saggi non solo con l’annuncio per febbraio di The theatrical Notebooks di Beckett, ma con la riedizione ampliata a cura di Fausto Malcovati di una vera ‘Bibbia’, L’ottobre teatrale 1918-1939 di Vesevolod E. Mejerchol’d, tra i grandi guru del teatro del Novecento: pensieri sulla rivoluzione, annotazioni di regie, polemiche furiose, in un’avventura umana e artistica appassionante. Sempre tra i nuovi saggi, due testimonianze: Napule ’70 (Pacini ed.) sulla storia di Chille de la Baldanza, la compagnia di Claudio Ascoli coautore con Matteo Brighenti e L’attore nella casa di cristallo (Titivillus) sul progetto teatrale in tempo di Covid di Marco Baliani. Infine, benedetti gli audiolibri che ci ridanno la voce degli attori: Giuseppe Battiston restituisce il sapore della provincia di Simenon in Maigret, quattro audiolibri di Emmons , dove c’è anche Rodari letto da Claudia Pandolfi, Claudio Bisio, Lunetta Savino in tre audiolibri per bambini. E adulti in cerca della giusta leggerezza.
Robert Musil, Teatro
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La Storia vissuta da Totò
Appartengo alla schiera, oggi molto ristretta, di chi è cresciuto nell’Italia della ricostruzione e, di famiglia illetterata, si è nutrito del cinema più popolare del tempo, soprattutto italiano, e ha potuto vedere, ascoltare, leggere i prodotti di una cultura popolare che era allora vitalissima. Come i Copioni da quattro soldi raccolti a suo tempo dal bravissimo Vito Pandolfi, o l’altra bella rassegna stabilita da Roberto Leydi in La piazza, due libri oggi introvabili anche se del primo la Cue Press ha annunciato la ristampa.
Nonostante fossero quasi sempre vietati ai minori e condannati dal CCC (il Centro cattolico cinematografico), riuscii a vedere da bambino anche molti film di Totò, perché l’uomo che strappava i biglietti nel cinema del paese (quello non ‘dei preti’) era un mio zio. Insomma, ho goduto di Totò ‘in diretta’ col suo tempo, e lo considero un privilegio. Poi, finita la festa, arrivano sempre, come si sa, i professori, che però ci hanno messo tantissimo ad arrivare nonostante, nel caso di Totò e della sua arte si fossero bene accorti alcuni rari e veri poeti (non i professori) come quel Palazzeschi che osava perfino gridare «viva il technicolor, abbasso il neorealismo!».
Visto dapprima con supponenza, con rare eccezioni (De Mauro!), a partire dal 1977 a scrivere di Totò si sono dedicati in tanti, professori e non, e Totò è diventato una sorta di «grillo del focolare» degli italiani, diceva Paolo Volponi, considerando l’apparecchio televisivo il focolare moderno degli italiani, prima dell’avvento del computer.
L’abuso annoia, e a quel lungo e ridondante successo è succeduta una fase in cui Totò è quasi scomparso dalla scena mediatica. Fino a oggi, al prezioso saggio di uno storico, Emilio Gentile, che ci ha spiegato molte cose importanti sugli anni del fascismo e della guerra. Un ‘professore’, diciamolo, ma che ha avuto un’infanzia in cui un padre e una madre non professori hanno saputo comunicargli l’amore per Totò; e questo ha per me una certa importanza, visto che il mio primo libretto su Totò era dedicato per lo stesso motivo ai miei genitori semianalfabeti, amanti del grande comico e dei film di Raffaello Matarazzo.
Ma l’interesse primo di questo imprevedibile saggio di Gentile, che sa unire un saldo mestiere a una altrettanta robusta curiosità e passione per «il principe de Curtis in arte Totò», sta nel ricostruire la biografia di un artista, amato dal popolo e guardato con sufficienza dai borghesi, anche comunisti. La Storia aveva coinvolto o aggredito anche lui, ed egli aveva ragionato sulla Storia a suo modo, da artista vero e grande e da cittadino comu-ne ma di non comune esperienza e di non comune intelligenza. Ragionante e giudicante.
Totò non era certamente una persona superficiale, e le sue idee sul mondo nascevano da una vita che ha avuto un privato e un pubblico non sempre tranquilli e che gli imposero in più modi un ruolo attivo, più complesso e prudente che nel comune cittadino. L’arte, e l’arte di arrangiarsi, e l’arte di affrontare la Storia con le sue crudeltà e miserie senza farsene sopraffare. Gentile ci aiuta ad apprezzare l’intelligenza e la morale del grande comico, una morale formatasi tra le trappole dell’esistenza e i ricatti del bisogno.
Seguire i modi in cui Totò ha saputo tener testa alla Storia e formarsene una propria idea, arrivando a un suo modo di affrontarla e giudicarla è il pregio maggiore di questo saggio, competente e istruttivo, divertente, originale e, in definitiva all’altezza del compito che si è dato, e del suo personaggio. Nonostante la mia diffidenza per i ‘professori’, che appartengono più facilmente di altre categorie, e forse oggi più che mai, alla schiera dei ‘caporali’, questo è un bel libro!
Un unico appunto vorrei però fargli, che riguarda la non considerazione dell’autore per gli sceneggiatori dei film di Totò che, come i registi, finirono per essere dei sodali al servizio del comico, ma offrendogli situazioni e battute sulle quali egli poteva ricamare in modi unici e formidabili. Lo stesso Siamo uomini o caporali? che vede anche Totò nel gruppo degli sceneggiatori (e mi sembra sia l’unica volta in cui questo è successo) fu scritto insieme alla coppia Nelli e Mangini, con Metz e col regista del film Camillo Mastrocinque. Tutti a servizio del personaggio, ma anche in qualche modo, pur se secondario, coinvolti nella sua definizione. E quando Gentile cita il discorso di Totò a Carolina sull’importanza di ciascuno nell’ordine della vita, nel film di Monicelli che fu tra quelli di Totò il più tartassato dalla censura democristiana, trascura che a scriverlo fu anche Ennio Flaiano, e di notare che il discorso di Totò somiglia moltissimo a quello del Matto a Gelsomina in La strada, che fu scritto, con Fellini, ancora da Flaiano.
Autofinzione e Teatro, l’opera di Sergio Blanco edita da Cue Press
Sergio Blanco è un drammaturgo franco-uruguaiano di poco meno di cinquant’anni. I suoi testi sono stati presentati in diverse parti del mondo, Italia compresa, dove la compagnia Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi si è aggiudicata il Premio Ubu speciale per l’allestimento di alcune opere straniere, tra cui il suo Tebas Land. Della diffusione italiana dell’opera di Blanco fa parte la proposta editoriale di Cue Press di cui ci occuperemo in questo articolo, composta dal saggio Autofinzione – L’ingegneria dell’io e dalla raccolta di opere tradotte in italiano Teatro.
Blanco è un drammaturgo con dei principi teorici ben definiti, elencati e discussi nel saggio Autofinzione. I suoi studi, di filologia e non solo, lo hanno spinto a una formulazione chiara delle idee che guidano il suo lavoro. Il cardine è proprio l’autofinzione, ovvero una scrittura che mescola autobiografia e finzione in modalità impreviste e, soprattutto, ambigue.
Se consideriamo le opere raccolte in Teatro, troviamo in Tebas Land un personaggio, il drammaturgo, che si chiama S.; ne L’ira di Narciso il protagonista, un intellettuale, si chiama Sergio e ne Il bramito di Düsseldorf ancora più esplicitamente Sergio Blanco. Queste figure sono il ‘doppio’ dell’autore, l’alter ego che assorbe parte dei suoi tratti caratteriali e delle sue esperienze, insieme però ad elementi finzionali.
L’autofinzione tuttavia non è solo questo, le identità reali-fittizie del drammaturgo sono possibili perché c’è una questione a monte che riguarda il potere della parola, della scrittura e dell’immaginazione. La possibilità di crearsi un’identità, di inventarsi, di piegare la realtà alle proprie fantasie è una capacità tutta umana che trova nel teatro il suo luogo di elezione. Alla luce di questo, le domande che sembra farsi Blanco in ogni suo testo suonano più o meno così: «Dove finisce la scrittura e inizia la realtà? Dove termina la rappresentazione e comincia la vita?».
Definire un confine sembra impossibile perché, in fondo, i fatti del mondo vengono plasmati e direzionati dalle parole. Come il padre di Martín in Tebas Land, che continua a ripetere al figlio «sei inutile», finché il giovane non se ne convince. Allo stesso modo, le somiglianze tra Martín e San Martino sono evidenti perché anche i miti, le leggende, persino i cartoni animati (Bambi ne Il bramito di Düsseldorf), danno forma alla realtà.
Siamo vittime di storie raccontate prima di noi, nostro malgrado. Per questo raccontare la propria, oppure inventarla, è importante. Il drammaturgo allora è semplicemente colui che consapevolmente, forse con più cinismo, fa quello che tutti noi quotidianamente facciamo. Certo, rispetto alla vita ‘vera’, il teatro dà molti più poteri: sul palco la natura degli oggetti può essere modificata con una battuta, un rosario può diventare di ciclamini e poi di rose e poi di nuovo di ciclamini senza colpo ferire; il fulcro dell’operazione però non cambia.
Tornando al saggio, la prima parte è occupata da una genealogia del concetto di autofinzione da Socrate ai giorni nostri, passando per il celebre motto di Rimbaud «Je est un autre» fino a giungere alla coniazione del termine da parte dello scrittore Serge Dubrovsky nel 1977. Blanco qui avanza una tesi secondo la quale, negli anni Settanta, i saperi e le pratiche (in primis la lotta politica) spingevano verso la cura del sé, la personalizzazione dell’individuo, l’esaltazione dell’espressione singolare di ognuna e ognuno.
Nella parte finale del XX secolo sarebbe avvenuta invece un’inversione di marcia, con l’affermazione di un individualismo vuoto e di un conformismo omologante e de-soggettivante. In quest’ottica, l’autofinzione sarebbe una forma di resistenza, di recupero di un’originalità del sé, «è scommettere su una costruzione dell’Io in quanto soggetto libero e capace di emanciparsi dalla pericolosa egemonia della cultura di massa».
Nella seconda parte del testo, Blanco individua alcuni temi-chiave della propria poetica: la conversione, il tradimento, l’evocazione, la confessione, la moltiplicazione, la sospensione, l’elevazione, la degradazione, l’espiazione, la guarigione. Prendiamo in considerazione l’elevazione e la degradazione che stanno ad indicare la luce sotto la quale viene mostrato l’alter ego di Blanco nelle opere. L’autore si preoccupa molto di difendersi dall’accusa di vanità, in quanto il suo personaggio viene spesso lodato e stimato come grande intellettuale, grande drammaturgo, grande amante.
La motivazione di ciò sarebbe però nei sentimenti opposti, Blanco esalta se stesso nei testi perché proprio lì ci sarebbe una falla nella realtà: «Il gesto di elevarsi attraverso il racconto dimostra la consapevolezza che esiste un errore da correggere».
In modo complementare, la degradazione – il personaggio di Sergio appare spesso freddo, arrogante e supponente – nasconderebbe invece una sorta di autocompiacimento per la capacità di sapersi criticare con lucidità. Tutto questo mostra come l’autofinzione sia un terreno aperto per l’autoanalisi portata alle sue estreme conseguenze, fino alla brutalità del desiderio di osservare la propria morte violenta ne L’ira di Narciso.
Non è quindi quella del pavoneggiarsi un’accusa fondata per il drammaturgo, semmai gli si potrebbe recriminare di essere a volte didascalico, un rischio che corre nelle opere e ancora di più nel saggio. Sembrerebbe però che la motivazione stia nel non voler avere alcun segreto con lo spettatore, nel desiderio di dargli tutti gli elementi necessari, nel ricercare un discorso comune; sarebbe allora vero che, come egli sostiene, Blanco scriva di sé per cercare l’Altro da sé e, soprattutto, per farsi voler bene.
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Introduzione allo studio del teatro francese
Con quest’opera, che si inserisce nella collana I Teatri Nazionali della casa editrice Cue Press, Gianni Poli intende fornire a un pubblico il più eterogeneo possibile un canale di accesso al teatro francese dal Medioevo al 1887. Ottimo strumento per chi sceglie di avvicinarsi al tema per la prima volta – l’autore si premura in ogni sua parte di introdurre i fatti partendo dalle basi, non dando nulla per scontato –, il testo parte da ragionamenti semplici per approfondire gradualmente aspetti via via più dettagliati dei quali anche gli esperti in materia troveranno stimolante la lettura. Gianni Poli si propone di indagare la storia del teatro francese focalizzandosi principalmente sull’ambito sociale e sulla «concretezza in cui l’evento teatrale s’è verificato, quale incontro di persone coinvolte in un’azione comunicativa reciproca» (p. 7).
Per cominciare, viene messa in luce, analizzando il periodo che va dagli anni di «confusione feconda e liberatoria» dell’esprit médiéval (p. 65) all’epoca più recente di Rostand, la relazione tra committenti, metteurs en scène (da quando questa professione è stata riconosciuta e istituita) e pubblico, dopo di che viene affrontato il suo declinarsi nelle varie epoche. Non mancano riflessioni, spiegazioni, curiosità sugli attori, sulle loro condizioni economiche e sociali, su teorie e stili della loro recitazione e sulle tecniche che mettevano in atto sul palcoscenico. In breve, si assiste a un’analisi degli ambiti sociali legati al mondo del teatro, ma non mancano parti dedicate agli elementi estetico-performativi degli spettacoli.
Concretezza è una parola chiave sul piano dei contenuti dell’opera ma lo è anche per quanto riguarda la metodologia adottata dall’autore : da sottolineare positivamente è infatti anche la solidità di questo studio che si appoggia su fonti critiche ricche, recenti, reperibili – concrete, per l’appunto. La bibliografia alla base di tale ricerca è immensa e vanta una mise à jour notevole. D’altronde è lo stesso Poli ad ammettere che una rivisitazione del teatro francese filtrata da fonti più recenti e moderne fosse e sia necessaria, soprattutto dopo lo sviluppo digitale degli ultimi decenni: «Con la diffusione dei mezzi informatici che, nel reperimento di dati e la consultazione, sono diventati insostituibili, si sono proposte vie problematiche, studi e soluzioni davvero nuovi. Pertanto affronto lo studio del teatro francese con sguardo mutato, consapevole della dimensione complessa della sfida, fiducioso però nell’efficacia […] del suo aggiornamento» (p. 7).
Si tratta quindi di cambiare la prospettiva (lo «sguardo mutato»), ma anche di moltiplicarla, di variarla accettando gli studi più recenti e innovativi. Ecco allora che questa scelta metodologica si vede tradotta nel testo grazie a voci diverse, quelle di studiosi e critici che forniscono altrettanti tagli interpretativi ai fenomeni teatrali dell’epoca, tutti proposti in modo puntuale nella sezione ‘Fonti ed evoluzione degli studi’, presente in ogni capitolo del volume. Qui trovano spazio rinvii per ulteriori consultazioni di saggi, articoli, volumi, tesi, archivi, siti internet e atti di convegno. «Racconto d’una ricerca personale» (p. 7), scrive l’autore: la sfida di un’aggiornata e stimolante immersione nel mondo del teatro francese è colta con ottimismo da Poli che in questa versione attualizzata e moderna riversa tutte le sue conoscenze in materia.
Nello specifico, cinque sono i capitoli in cui l’autore sceglie di articolare la storia del teatro francese. Dall’epoca dei primi jongleurs e trouveurs (dalle origini al 1548), si passa alla Renaissance, secolo di censura, Inquisizione ma anche di «splendore raggiunto […] nell’età classica» (p. 121) (1548-1680); si procede poi con una panoramica del periodo barocco e del primo Illuminismo, aperta dalla fondazione della Comédie Française nel 1680 (1680- 1789). Gli ultimi due capitoli coprono rispettivamente l’epoca di scompiglio politico francese (1789-1815) e buona parte del XIX secolo (1815- 1887). Arrivando al 1887 Poli chiude il cerchio della sua analisi della storia del teatro francese che risulta così investigata dallo stesso fino al 1996 : nel 1999 era infatti uscito per la casa editrice Le Lettere il suo volume Un secolo di teatro francese (1886-1996). Un punto forte del manuale più recente è la coerente e ben studiata distribuzione dei contenuti : per evitare di tralasciare dettagli di un’epoca rispetto ad un’altra, ogni capitolo è diviso in sei parti, ognuna delle quali prende avvio da un puntuale quadro storico. Dai titoli dei sottocapitoli si percepisce la completezza dello studio : «Panorama», «Il luogo e lo spazio», «L’evento e la messa in scena», «L’attore»¸ «L’autore e il testo» e «Conclusioni». Dice Poli nella «Premessa»: «Sembra un paradosso tentare di comporre una Storia del teatro, senza partire dagli autori, dai testi e dalle rappresentazioni» (p. 7).
Eppure tale paradosso viene smentito da quest’opera che, nella sua completezza, riesce ad abbracciare moltissimi aspetti del teatro francese e in cui allo stesso tempo non mancano estratti di opere, elenchi di teatri, di attori e rimandi ad altrettante liste stilate da altri studiosi. Non ci si può che rallegrare quindi con l’autore per questo libro ben riuscito che raggiunge gli obiettivi presentati nelle prime pagine, tra i quali il tentativo di suscitare la costante «discussione critica del lettore» (p. 11).
Pirandello e i Giganti, un mistero da svelare
La grandezza del teatro di Luigi Pirandello si misura attraverso la capacità dei testi di saperci parlare e interrogare ancora oggi. Quella dell’autore è una riflessione, per larga parte ancora insuperata, sull’uomo, sulle sue contraddizioni, sui suoi tormenti, sul suo posto nel mondo come unità facente parte di un tutto con cui si relaziona (proprio all’interno del concetto di relazione si innesca la miccia che fa esplodere il dramma). In alcuni casi, poi, tali forme di interrogazione sul senso dell’umano sono ampliate dal sottofondo di mistero, di non svelato, che avvolge il testo, spesso in grado di coinvolgere il lettore in rimandi da capogiro. Su uno dei testi più misteriosi di Luigi Pirandello, l’incompiuto Giganti della montagna, si confronta uno studioso del calibro di Paolo Puppa con questo Fantasmi contro giganti, frutto di uno sviluppo organico di un saggio degli anni Settanta. L’aspetto più evidente di questo studio è la complessità del problema, che viene affrontato in un gioco di rimandi che coinvolge tutta la produzione dello scrittore siciliano, non solo teatrale, ma a partire dal capolavoro dei Sei personaggi, attraverso una scrittura altrettanto felicemente complessa, che proietta nell’affascinante turbinio della fertile mente pirandelliana.
Marco Paolini tra media e pubblico
Marco Paolini, attore-autore-narratore dalla forte personalità di intellettuale-testimone, è qui oggetto di una riflessione quantomai necessaria oggi che si discute delle relazioni pericolose tra teatro ‘dal vivo’ e ‘in video’. Punto di partenza è il progetto che Paolini realizza tra il 2000 e il 2003 dedicato alla strage di Ustica, tornandoci più volte, con il Canto, con il Racconto, in teatro, in video… Non è la prima volta che Paolini racconta fatti della storia contemporanea, ferite aperte nel corpo civile e democratico del Paese. Attraverso una ricostruzione minuziosa e rigorosa, che integra le voci di Paolini stesso e di Davide Ferrario, regista delle versioni video del Racconto per Ustica e di successivi lavori dell’attore veneto, Marchiori ricostruisce la storia dello spettacolo e getta un più ampio sguardo sullo status del teatro di Paolini, analizzandone il senso delle relazioni con i diversi media e con il pubblico. Il racconto del Paolini narratore, la sua perizia, la sua intelligenza nell’uso sapiente delle tecniche linguistiche e comunicative della ‘persona di consiglio’, si affianca così a uno studio sul senso del lavoro complessivo del Paolini intellettuale, capace di far uso dei diversi media con altrettanta intelligenza. Dopo il ‘caso’ di Ustica, Marchiori segue Paolini nella sua ricerca in scena e fuori, laddove la sua presenza in video è reiterata con diverse proposte (Gli album, i monologhi per Report, Il sergente), nate dal teatro e concepite per il video, che nel tempo hanno costruito una comunità di spettatori vasta e variegata.
«L’appassionato di questo tipo di teatro sa che lo spettacolo che va a vedere viene (o è stato o verrà) ripreso, che ne nascerà un video mai esattamente coincidente con l’evento cui ha partecipato, e neppure con l’eventuale diretta televisiva. Sa che farà bene a non perderne nessuno dei tre, se vuole avere una visione d’insieme dell’opera. E sa che Paolini cambia testi, ‘riporti’, montaggi dei suoi lavori, quindi meglio tenerlo d’occhio, tornare a rivederlo».
Ne viene una visione ampia di che cosa è e può essere teatro e dei possibili esiti della sua multimedialità ‘reticolare’, dove canali e linguaggi molteplici dialogano fra loro potenziandosi e dove il teatro vince sempre. E non è poco.Pane e palcoscenico, Vachtangov il Maestro
A leggere vien voglia di fare teatro. Di capirlo, di lasciarsene irrimediabilmente sedurre. Come ogni anno succede a migliaia di studenti alle prese con l’arte e il pensiero di Vachtangov. Per alcuni è stato il perfezionatore del metodo di Stanislavskij. Per altri l’anello di congiunzione fra la bellezza formale e le rigidità teoriche del naturalismo psicologico. Ma prima di ogni altra cosa, nelle sue parole emerge forte (fortissima) la passione instancabile per il teatro. Un amore non fraintendibile di chi è cresciuto a pane e palcoscenico, pronto a dedicare ogni minuscola parte di se stesso allo studio e alla creazione, nonostante gli innumerevoli ostacoli di una malattia che lo porterà alla morte prima dei quarant’anni. Il volume della Cue Press raccoglie stralci di diario, taccuini, lettere e appunti, per un’edizione riveduta e ampliata che rimane fondamentale per chiunque voglia avvicinarsi al regista russo. Anche per l’amplissima introduzione firmata da Fausto Malcovati, dove si sottolinea la tensione pedagogica di Vachtangov, la predilezione per il lavoro di gruppo, la pratica innovativa, la frequente ferocia contro gli esiti artistici di maestri e colleghi. Le ultime pagine sono dedicate alle immagini d’archivio. Peccato per il prezzo, non proprio popolare.