Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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1 Luglio 2020

Il teatro francese, uno studio storico-critico

Giuseppe Liotta, «Hystrio», XXXIII-3

Agguerrito studioso di teatro francese e traduttore di saggi e testi, nonché critico teatrale, drammaturgo di pièces divertenti e insolite, Gianni Poli, con questo impressionante, complesso e problematico volume, compone una laboriosa e accurata storia dei ‘fatti teatrali’ che hanno contribuito a costruire un plausibile ritratto, peculiare e scientifico, del teatro in Francia dalle origini medievali al 1887. Uno sguardo che tiene insieme, in una comune idea di teatro, manifestazioni spettacolari molto diverse fra loro e collocate in differenti spazi, declinate in modalità diverse nel corso dei secoli rispetto al luogo e al tempo storico-sociale di appartenenza, ma tutte accomunate da una modalità di rappresentazione che ha i suoi fuochi centrali nello spazio/luogo di riferimento, nella figura dell’attore e nel testo scritto. Il problema di un’estetica teatrale che tende a farsi cronologia degli eventi, o storia e teoria dei medesimi, è continuamente presente nell’ampia e documentatissima riflessione storiografica di Gianni Poli, che fa appello a varie discipline – giuridiche, economiche, letterarie – in un costante incrocio di prospettive metodologiche, plurime e disomogenee, e tuttavia concorrenti ad ampliare e ridefinire i cinque capitoli in cui è divisa l’opera. Che ha l’ulteriore pregio di tenere fermi – nel suo fitto dialogare umanistico/filologico e in una prospettiva, non solo storica, rovesciata – la dimensione temporale dell’oggi e lo stato degli studi contemporanei più avanzati sulle scienze della rappresentazione con particolare riguardo alle tesi di studiosi accademici come Le Goff (sul significato di ‘documento’), Bloch e Febvre (fondatori degli Annales di storia economica e sociale), Marco De Marinis (a cui Poli rimane debitore della nozione di ‘storiografia’ applicata) e, per finire, Raimondo Guarino, di cui questo prodigioso e fondamentale lavoro rende quanto mai vera l’affermazione: «La metodologia storica ha smantellato la centralità dell’evento».

Jouvet
1 Luglio 2020

Un disordine incarnato, il teatro secondo Jouvet

Laura Bevione, «Hystrio», XXXIII-3

«Il teatro è disordine incarnato». È a partire da questa felice constatazione che Louis Jouvet muove le proprie osservazioni e i propri pensieri sull’arte teatrale, cui egli si approcciò per esperienza diretta, come attore e regista, e non soltanto quale studioso. Riflessioni articolate e complesse che sono ora finalmente tradotte, da Brunella Torresin, e pubblicate, con la cura di Stefano De Matteis, anche autore di un’approfondita introduzione. Sulla scia del Paradosso dell’attore di Diderot – di cui sono messi in luce i limiti – e dell’estetica ottocentesca, Jouvet tratteggia il suo sfumato ritratto del comédien, che è altra cosa rispetto all’acteur, quest’ultimo professionista che, anziché ‘essere abitato’ da un personaggio, lo ‘abita’ lui stesso – rivendicando la priorità della pratica quale base dell’elaborazione teorica – si tratta, d’altronde, di un «mestiere empirico». Jouvet, ancora, individua nel ‘sentimento’ ciò che contraddistingue il comédien, differenziandolo dal mero ‘declamatore’ di un testo. Tratta di respirazione e atteggiamento nei confronti del personaggio, di vocazione e del Conservatoire di Parigi, dove fu a lungo insegnante. Jouvet accosta aneddoti, incontri, osservazioni pregnanti non perché miri a elaborare una – impossibile – teoria dell’arte dell’attore, bensì poiché inconsapevolmente impegnato nella costruzione di una dettagliata antropologia, acuta e indubbiamente contemporanea, benché non sistematica. Ma leggendo i materiali compositi raccolti in questo prezioso volume – comprese anche le note Lezioni sul Tartufo e una sorta di ‘dizionario’ che sintetizza l’arte del comédien secondo Jouvet – è inevitabile riconoscere una precisa e solida idea di teatro, i cui contorni sono delineati più per esclusione e negazione che da una vacua assertività.

Schechner
29 Giugno 2020

Dal teatro no al sumo al wrestling: Tutto è performance

Rodolfo di Giammarco, «la Repubblica»

A ciò che noi oggi chiamiamo teatro, gli uomini, in un’epoca diversa, davano un altro nome. Le rappresentazioni di Eschilo, Sofocle e Euripide erano rituali. Poi Aristotele codificò un’estetica del teatro. S’affermarono i ‘comportamenti recuperati’, l’arte simile alla vita. Finché adesso azzardiamo che ogni azione è una performance: anche se, a seconda dei contesti culturali e delle pratiche sociali, c’è distinzione tra quotidianità e intrattenimento. Ad aiutarci ad approfondire e a illustrare tutti i fenomeni espressivi c’è, tra i vari strumenti consultabili, Introduzione ai Performance Studies, un quotatissimo libro-manuale dello statunitense Richard Schechner, curato da Dario Tomasello, commentato da Marco De Marinis, la cui ricca dotazione iconografica meriterà un giorno o l’altro, auspichiamo, una mostra al nostro Palazzo delle Esposizioni (come avvenuto per Il corpo della voce su Bene, Berberian e Stratos).

Più che orientarvi a scoperte antropologiche, a codici recitativi e a sperimentazioni sceniche di cui questo volume è un catalogo affascinante, preferisco soffermarmi sul portfolio di immagini che catturano l’occhio declinando un repertorio concitato e cosmopolita di atti performativi. Cito per prima la comparazione tra le smorfie emotive (rabbia, felicità, tristezza, disgusto, ecc..) di soggetti orientali e occidentali. E gli allestimenti remoti di Cechov. Le foto di Woodstock. Le posture della Bill T. Jones Company, del sumo giapponese, di attori di Grotowski, dei wrestler americani, dei danzatori balinesi, dei tennisti di Wimbledon, di un Charles Laughton brechtiano, di un kathakali indiano, di marionettisti di Giava, di Angelica Winkler diretta da Wilson, del subcomandante Marcos, di una prima attrice di teatro no, di una personificazione di Gandhi nel Théatre du Soleil. C’è pure un biglietto di sarcastica protesta antirazzistica negli Usa del 1986.

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26 Giugno 2020

Poesie per ricordare Albertazzi

Titti Giuliani Foti, «La Nazione»

«Apro la finestra e ho gli occhi pieni d’Arno oliva oliva come i tram d’una volta la mia Firenze della fine di marzo giù da San Miniato agli specchi di Santa Trinità trionfante e sobria come una campanella francescana il camioncino delle verdure scende ai mercati e tesse un’aria serica – liscia – coi fari accesi di prima mattina. È giorno. Non si odono voci nel crepitio della pescaia».

È una delle struggenti poesie di Giorgio Albertazzi, straordinario interprete e intellettuale che ci ha lasciati il 28 maggio 2016. Uno scritto che è parte della raccolta appena pubblicata postuma dal titolo Poesie e pensieri – Cue Press, 194 pagine, 22.99 euro – per desiderio della moglie, Pia Tolomei di Lippa, che ha vissuto fino all’ultimo il grande faticoso privilegio di stargli vicino. Idea condivisa con l’attrice e partner di tanti spettacoli, Mariangela D’Abbraccio, e con Eugenio Murrali. Se Firenze si è drammaticamente scordata uno dei suoi figli migliori, non è così per gli affetti, per chi ha lasciato un segno, per il mondo dello spettacolo e della cultura.

Pia, che idea ricordare Albertazzi con i suoi scritti.

Le poesie di Giorgio si offrono come era lui e le sue interpretazioni a teatro: intime e pubbliche allo stesso tempo. Questo libro va considerato un diario in versi che attraversa la sua vita. Dall’infanzia, ricordo che lo ha accompagnato sempre, all’amore per la campagna fiorentina, fino ai legami familiari, passando per le relazioni sentimentali e professionali.

E c’è lei, presenza costante e discreta.

Io non ho mai invaso la sua vita, ho sempre saputo chi fosse Giorgio, lasciandolo libero di fare e gestirsi. Ma ero vicina, presente nella sua vita di artista quasi in simbiosi. Queste poesie le voleva pubblicare, ma poi è morto. Ci è sembrato, giusto a tutti e tre portare avanti la sua idea, anche perchè erano già pronte per poterle stampare.

Quante ne aveva raccolte?

Più di cento, come sono uscite nel libro. Poi ci sono dei pensieri mei, perchè ho voluto aggiungere altro, far conoscere meglio Giorgio e il suo mondo meraviglioso, con le frasi che diceva. Le ho riprese da interviste e spezzoni di scritture che ho ritrovato: in un certo senso è un dialogo mai interrotto fra me e lui. Quel che ho aggiuto è scritto in azzurro.

La prefazione è di Walter Veltroni che vi ha sposati: Giorgio aveva 84 anni, lei 48.

Veltroni è un amico caro e dice cose belle: “Ho molto amato la sua libertà intellettuale, l’intensità delle sue passioni, la grandezza del suo talento. Eravamo diversi e per questo ci stimavamo e ci volevamo bene. Ai miei occhi, prima ancora di conoscerlo, era l’Attore“. Ha capito tutto di lui.

Albertazzi scrive: «Ci sono uomini che guardano le stelle dall’alto».

A me ha commosso rileggere tutto quello che ha scritto, non mi aspettavo mi avesse dedicato riflessioni e tanto tempo. Sono raccolti i suoi rapporti con Bianca Toccafondi, Anna Proclemer, e con me: c’era sempre questa “P“ di cui scriveva. Giogio era amore: non ha mai dimenticato la sua città, gli animali, la Maremma dove è morto. Io oggi mi sento lui e scrivo “G sei sempre con me, P“.

Poesie e pensieri di Albertazzi: bello sentire la sua intelligenza ronzare immortale fra le pagine.

Berlino
24 Giugno 2020

Berlino. Tra passato e futuro

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Assumendo a paradigma la programmazione della Volksbühne, il teatro per antonomasia della DDR assieme al Berliner Ensemble, Sotera Fornaro scrive: «sembra che si voglia neutralizzare l’aspetto politico» anche per soffocare la possibile «nostalgia dell’Est» e, di riflesso, dare maggiore importanza alla Schaubühne, il teatro simbolo della Berlino occidentale. Questo depotenziamento identitario, via via progredito dopo il crollo del Muro, oltre ad essere un progetto politico nei riguardi del passato, risponde alla vocazione della capitale tedesca sempre più votata al piatto ma conveniente turismo globalizzato.

Pari a chiese e musei, palazzi e piazze, anche gli edifici teatrali occupano una posizione di rilievo negli itinerari tracciati per le «persone di transito». Questo pregevole libro-guida Berlino. Tra passato e futuro recupera il senso della cosiddetta ‘passeggiata per Berlino’, ricorrente nella letteratura e nella filosofia nel XIX secolo e poi codificata da Walter Benjamin, per raccontare i tanti e celebri teatri, intesi come potenziali contenitori di cultura dello spettacolo e di Storia nelle sue fasi salienti, prima e durante la tormentata repubblica di Weimar, all’epoca del nazismo fino alla situazione attutale, passando attraverso gli Anni di Piombo e la riunificazione delle due Germanie.

L’itinerario ragionato parte dal Mitte, il centro della capitale, dove si trova il mitico viale Unter den Linden che dalla porta di Brandeburgo conduce ad Alexanderplatz e lungo il quale hanno sede l’Akademie der Künste e la Komische Oper, confiscata dai nazisti, bombardata e ricostruita nel 1965-1966. Sul Gendarmenmarkt troneggia il Konzerthaus edificato nel 1776 al tempo di Federico II e diretto nel 1796 da August Wilhelm Iffland, leggenda del teatro tedesco; affidato alla direzione del celebre attore Gustaf Gründgens, fu l’unico teatro funzionante durante il nazismo, mentre all’epoca della Guerra fredda si contrapponeva alla nuova Philarmonie nella Berlino occidentale. Sulla Bebelplatz, il luogo del rogo dei libri nel 1933, si affaccia la Staatsoper Unter den Linden e nei paraggi si incontra il Maxim Gorki Theater, prima Accademia di Canto poi dal 1952 teatro ribattezzato dai russi.

Quando si arriva al Beliner Ensemble, la Fornaro omaggia Brecht con pagine di delicata sobrietà nel sottolineare la personalità culturale e la grande lezione teatrale ereditata da Helene Weigel, straordinaria interprete delle grandi figure femminili del repertorio brechtiano, da Heiner Müller fino a Claus Peymann. Altro teatro analizzato con grande attenzione è il Deutsches Theater già diretto da Otto Brahm e poi da Max Reinhardt che nel primo ventennio del Novecento lo trasformò nel luogo delle arti sceniche più importante di Germania, per poi essere sequestrato dai nazisti, quindi riaperto nel 1945 e diretto da personaggi del calibro di Wolfgang Langhoff e Alexander Lang.

L’incidenza delle trasformazioni storiche emerge anche nell’Est End, a ridosso della Porta di Brandeburgo e della linea del Muro. Questo quartiere – «vuol far concorrenza alla Broadway newyorkese o al West End di Londra», spiega la Fornaro – è animato da teatri di intrattenimento, cabaret, danza e spettacolo leggero.

L’Epilogo del libro è strepitoso: si chiama in causa il Parco di Weinberg, dove sorgeva già nel 1852 un Circus-Theater poi trasformato, durante la Prima guerra mondiale, in teatro di varietà, il Walhalla Theater, al fianco del quale nel 1927 sorse il Chaplin del Weinberg, successivamente raso al suolo dai bombardamenti del 1944. Teatro tanto dimenticato quanto simbolico quindi, poiché «di sicuro qualche fantasma di quelle scene popolari qui si aggira ancora», si confonde fra le persone che «prendono la rincorsa e saltano su un bus. […] Verso il futuro». Così si conclude Berlino. Tra passato e futuro, un libro-guida rivolto a turisti-visitatori sensibili alla cultura dello spettacolo e interessati alla storia della città, scritto con passione e di agile lettura, sicuramente da mettere in valigia nel prossimo soggiorno in una delle capitali mondiali dei teatri.

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22 Giugno 2020

Schegge di poesia di un Albertazzi autobiografico

Rodolfo di Giammarco, «la Repubblica»

L’ultimo, inatteso, appassionato, insospettabilmente delicato, e pentito, e struggente spettacolo di Giorgio Albertazzi è in un libro, Poesie e pensieri, pubblicato da Cue Press, co-curato con impagabile sentimento alla moglie Pia Tolomei di Lippa, da Mariangela D’Abbraccio, già partner e compagna, e da Eugenio Murrali. Ha senso di memoria storica e discreta, la prefazione di Walter Veltroni, dove si dà anche lustro ai versi umani dedicati all’attore Antonio Crast. Ma a sollecitarvi, a spiazzarvi direttamente saranno i bagliori di Mia vita e morte, l’ubriacatura di Muoiono i nonni, gli occhi pieni d’Arno de Il mio fiume, o l’arrivare impreparati di Filastrocca per un compleanno dell’ottuagenario Giorgio che nel 2003 butta giù parole in libertà perentoria al Teatro Argentina. «Ai miei amici qui/ dedico la matassa/ intricata e anarcoide/ della mia vita».

Anche se poi le pietre miliari incastonate qua e là — bello il montaggio diacronico dei pezzi — ha a che fare col diario serio o fibrillante degli affetti, a cominciare dall’indimenticato testimoniare della dedizione di teatro-vita per Bianca Toccafondi, sostando sulla ditta d’arte e di scena condivisa con Anna Proclemer, rivedendo in moviola Mariangela D’Abbraccio, evocando Elisabetta Pozzi da giovane, di fatto soffermandosi con una vera letteratura di meditazioni, poemi, appunti ed emozioni mature per Pia Tolomei di Lippa. Qua e là cita Gassman, e scatta qualche inimmaginabile affinità tra le poesie per Pia e il «Donna mia, moglie mia…» che Vittorio riservò a Diletta nei suoi Vocalizzi. Bravo, Albertazzi, quando a posteriori mette in guardia tutti contro di lui: «Attenti, quando recito, ai vuoti, ai contrattempi/ ai controtempi, all’assenza e al delirio».

Poi, certo, è dispersivo, fanatico e agé, con l’eterno femminino, ma sincero con Adriano. Questa è l’ultima sua scheggia autobiografica autorizzata.

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10 Giugno 2020

Vedere o non vedere

Massimo Bertoldi, «Il Cristallo»

Per capire a fondo la forza creativa dei tre testi antologizzati in Vedere o non vedere è consigliabile leggere attentamente quanto gli autori, Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, dichiarano a Gerardo Guccini in apertura di volume. Spiega l’attore e performer: «I tre lavori mostrano un filo rosso, un percorso che porta allo smascheramento, allo svelamento, a parlare sempre di più in prima persona. […] Gli episodi si possono leggere separatamente, ma anche seguire come segni del nostro percorso artistico e umano. Noi partiamo dalla nostra realtà, ma poi tentiamo di rendere universale il personale».

Come succede in un fiume carsico, dalle tre commedie emergono e poi scompaiono le onde della nostra esistenza fatte di dubbi e crisi, insicurezze e contraddizioni, smarrimenti e consapevolezze, nel contesto di una società ottusamente consumista cui la Compagnia Berardi-Casolari, attiva dal 2008, si contrappone con un linguaggio teatrale provocatorio e ricco di schegge di realismo che aprono inquietanti sguardi sul mondo.

Io provo a volare, omaggio a Domenico Modugno, racconta in modo tragicomico illusioni e delusioni di uno dei tanti ragazzi del Sud che sogna di diventare attore, compiendo una sorta di viaggio errante alla ricerca di riscatto sociale. L’escamotage narrativo è dato dallo spirito di un custode di un teatrino di provincia, il Fantasma, che ogni notte appare in scena con i musicisti con i quali aveva iniziato il mestiere. Si susseguono i sogni, gli incontri, la fuga romantica dal paesello fino all’amaro ritorno. Nel quadro conclusivo si legge il passaggio chiave: «Vedere o non vedere, questo è il problema. Guardare dritto in faccia la realtà che mi circonda e mi spaventa e affrontarla con coraggio per cercare di cambiare qualcosa, o tenere tutto quanto ben nascosto dietro un velo che mi copre gli occhi e mi impedisce di morire?»

Il richiamo ai personaggi di Amleto e di Tiresia, il mitico indovino dell’Edipo Re, oltre a declinare la poetica di Berardi-Casolari, prelude al secondo testo in oggetto, In fondo agli occhi. Ricco di riferimenti biografici (Berardi è cieco dall’età di 19 anni), il dialogo tra la barista Italia e il giovane non vedente Tiresia anima storie di personaggi sintomatici, protagonisti di episodi balordi e simbolici, propri di una condizione umana che alimenta l’immagine da baraccone di una nazione povera di democrazia, ipocrita, avvolta nel buio.

«Soffro ma sogno. / Per questo vivo. / Sognando». Così si apre il conclusivo Amleto take away, esplicito richiamo al malinconico e pensieroso personaggio shakespeariano ora assunto quale segno di un atteggiamento verso il mondo d’oggi, che sprigiona lucidità, follia, nichilismo nella denuncia di una dimensione esistenziale connotativa: l’incontro-scontro tra finzione e realtà, ossia il perno del mestiere dell’attore, tanto che il testo dall’impianto drammaturgico metateatrale beffeggia i maestri di Casolari (Manfredini, Brie, Delbono). La rivisitazione del capolavoro del Bardo non tralascia la figura/fantasma del padre, trasformato in un operaio dell’Ilva di Taranto che, mentre pranza con il figlio leggendo il fumetto di Tex Willer, dubita fortemente sul suo desiderio di voler fare l’attore. E ancora più significativa è la trasformazione del fatidico monologo «essere o non essere» in «esserci o noi esserci» sui social network, vale a dire nel regno per antonomasia della menzogna dove le parole muoiono nel nulla. Inoltre Amleto non declama con il teschio del buffone in mano ma davanti alla tastiera dello smartphone connesso a Facebook e indeciso se «taggare o non taggare».

Il volume Vedere o non vedere offre al lettore un ricco apparato fotografico, strumento fondamentale per inquadrare i testi in funzione della scena. Impreziosisce, inoltre, una pubblicazione importante in quanto dà visibilità cartacea ad una coppia di attori originali che ancora mancano di riconoscimento pari alle loro pregevoli abilità performative. L’operazione editoriale è in linea con il progetto culturale di Cue Press, finalizzato alla scoperta e divulgazione di autori italiani e stranieri basilari per conoscere gli orientamenti della scena contemporanea.

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Alberto sordi amori film vita
1 Giugno 2020

Alberto Sordi

Stefano Rizzo, «Nocturno»

Cue Press, diretta da Mattia Visani, è la prima casa editrice digitale (ma anche con edizioni cartacee) dedicata allo spettacolo e dal 2012 è votata al teatro con numerose ed interessanti pubblicazioni che coprono molte delle lacune della nostra editoria. Si può dire che la Cue Press abbia preso sulle sue spalle l’eredità di Ubulibri, indimenticata casa editrice diretta da Franco Quadri. Nel suo catalogo però è molto presente anche il cinema con alcune pubblicazioni inedite e riproposte. Tra i recuperi più importanti vorrei ricordare un grande libro, Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949 a cura del compianto Alberto Farassino, giustamente ripubblicato dopo trent’anni. Anche il libro qui recensito è un recupero dal passato, in questo caso ci separano ben quarant’anni dalla prima edizione del 1979 per i tipi de Il Formichiere. Sto parlando di Alberto Sordi di Maurizio Porro, critico de «Il Giorno» e del «Corriere della Sera» e autore di libri gustosi come Il cinema vuol dire e La cineteca di Babele.

Questo volume, ripubblicato per il centenario della nascita del grande attore, è un classico della saggistica cinematografica italiana e fu una delle prime monografie dedicate ad Alberto Sordi e questo sottolinea il ritardo della critica nel comprendere il valore non solo commerciale del suo cinema. Il libro è ancora oggi tra i più validi testi su un attore italiano ed è ricco di riflessioni e considerazioni preziose. Leggerlo dà la sensazione di dare per la prima volta uno sguardo approfondito sul percorso di attore di Alberto Sordi. Oggi la grandezza e la densità della sua attività cinematografica è strabiliante e condivisa da qualunque storico o critico. Nel 1979, invece, nonostante Sordi avesse già girato in sostanza tutti i suoi più grandi film e si avviasse ai decenni più deboli della sua filmografia, gli ’80 e ’90, non erano ancora molti gli studiosi che lo ritenevano degno di un approfondimento (si può ricordare il rifiuto di Fofi di scrivere un libro insieme all’attore prima del pentimento che lo portò a pubblicarlo nel 2003 dopo la morte di Sordi). Porro era invece tra i critici illuminati e questo libro lo dimostra.

Attraverso le sue pagine possiamo entrare nel ‘cervello’ di Sordi attraverso una lunga conversazione con l’attore, tra le più belle interviste da lui rilasciate. Inoltre troviamo un’introduzione biografico-critica di Porro e alcune significative testimonianze di Luigi Comencini, Enrico Montesano, Nanni Loy, Morando Morandini e Dino Risi. La seconda parte del libro è una sorta di enciclopedia per immagini della recitazione dell’attore. Attraverso molti fotogrammi e foto di scena dei suoi film, Porro, con la sua consueta vocazione al ‘dizionario’, riesce a darci, con brevi testi, un panorama completo dell’ampia gamma gestuale del lavoro di Alberto Sordi alle prese con una possibile e molteplice definizione del carattere dell’italiano. In coda la filmografia completa, aggiornata all’ultimo film girato dall’attore, come del resto è riveduto ed ampliato tutto il volume. Da notare l’ottima veste grafica dei libri Cue Press a cura di Chia Lab.

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31 Maggio 2020

La verità, vi prego, su Mejerchol’d

Andrea Porcheddu, «L’Espresso»

Il 25 ottobre 1917 la corazzata Aurora entra nella Neva e si ancora a fianco della cattedrale di Pietro e Paolo. Alle 21:45, un colpo di cannone dà il segnale della rivoluzione. In quel clima, tra i primi provvedimenti di Lenin, arriva la nomina a commissario per l’istruzione di Anatolij Lunacarskij che convoca subito nella sede del governo rivoluzionario «tutti i rappresentanti delle varie arti disposti a collaborare» con i bolscevichi. Si presentano in cinque: i poeti Alexander Blok e Vladimir Majakovskij, i pittori Natan Altman e Kuzma Petrov-Vodkin e un regista, Vsevolod Mejerchol’d.

C’è una descrizione, che fece lo slavista e critico Angelo Maria Ripellino, di Mejerchol’d, e che dice più o meno: «Mejerchold piombò su Mosca come un demonio riottoso. Le labbra strette, lo sguardo accigliato, portava un logoro cappotto soldatesco con la rivoltella alla cintola, una sciarpa di lana, le fasce, un berretto con la stella rossa».

È lui, il ‘Dottor Dappertutto’, il protagonista di un libro bello, potente, spiazzante che torna in libreria grazie a Cue Press: L’ottobre teatrale, curato con amorevole e ultradecennale passione da Fausto Malcovati. Nella prefazione, Malcovati ricorda quando, nel ’71, nella Mosca ancora duramente sovietica, assieme a Silvana De Vidovich, incontrò il maggior studioso di Mejerchol’d, Alexander Fevral’skij. Da quel confronto nacque una raccolta di scritti mejercholdiani, edita da Feltrinelli nel ’76. Il libro, che si concentra sugli scritti dal 1918 fino al 1939, ha aperto la strada alla necessaria riscoperta del rispettoso e rivoltoso allievo di Stanislavskij. Ritrovare L’ottobre teatrale, in edizione riveduta e ampliata, significa allora fare i conti, con maggior consapevolezza, con una storia creativa e umana straordinaria, avvincente anche per chi non si occupa di teatro. Pagine fantastiche, impegnate, dettagliate, illuse e disilluse, fatte di discorsi, bozzetti, commenti, osservazioni: scritte fino a quando lo stalinismo metterà violentemente fine all’avventura teatrale e alla vita di Mejerchol’d.