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Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.


Un vigile contro la ʼndrangheta. In Calabria? No, in un tranquillo paesino romagnolo. La piovra ormai è dappertutto
Recensire un testo che è nato per la scena è diverso che recensire lo spettacolo da cui è tratto. Si utilizzano metodologie d’approccio diverse perché, se il lettore è portato a fantasticare, lo spettatore di professione ricorre a canoni di giudizio diversi.
Il testo trattato è Va pensiero di Marco Martinelli, pubblicato da Cue Press nella collana che Mattia Visani ha dedicato alla drammaturgia del terzo millennio. Perché ho scelto Va pensiero? Perché, da tempo, mi occupo di teatro e mafia, avendo esaminato, in un volume omonimo, una serie di commedie e di drammi che dal 1867 al 2011 hanno trattato l’argomento.
Il testo di Martinelli lo affronta in maniera alquanto personale, con un uso particolare dell’ironia e della leggerezza, tipica della drammaturgia brechtiana, della quale ha sfruttato certe intelaiature, tipo: brevi scene, anticipate da scritte didascaliche visualizzate su uno schermo, con l’idea geniale di sostituire i song con cori e aree famose, tratte da opere verdiane, senza la retorica del palcoscenico ad uso della legalità. In questo testo non c’è nulla di retorico, c’è solo teatro dove, in ventisette brevi capitoli, viene raccontata la storia di un semplice vigile urbano, con velleità di cronista, che denuncia, non certo per coraggio, ma perché crede nella professione che svolge, quell’atmosfera di corruzione che il suo paese sta vivendo, dopo l’arrivo di un imprenditore ʼndranghetista.
Non siamo né in Sicilia, né in Calabria, bensì in un paesino di Romagna, apparentemente tranquillo, diventato, per la ʼndrangheta, terra di conquista, come dire che la piovra si è estesa in tutta Italia, creando situazioni da vomito. Non per nulla, quando il sindaco, soprannominato la Zarina, che in teatro è interpretato da una straordinaria Ermanna Montanari, quando entra in scena, vomita.
L’argomento trattato, alterna la verità con la verosimiglianza, visto che il processo Aemelia si è concluso, a Reggio Emilia, un anno dopo la stesura di Va pensiero, il 18 Ottobre 2018, con la condanna di 118 persone collusi con la ʼndrangheta, tra i quali, politici e imprenditori.
Non ci sono situazioni drammatiche, nel testo di Martinelli, bensì incursioni epiche su una materia riprovevole per la quale si è chiamati, non a partecipare, bensì a riflettere. Del resto, la tecnica del racconto è di tipo corale, alla quale Martinelli ci ha abituato da tempo. Attenzione, però, i personaggi non sono da operetta o, se lo sono, bisogna pensare a Mahagonny. Recensendo lo spettacolo, Renato Palazzi ha scritto sul «Sole»: «Si tratta di uno dei più importanti tentativi di questi anni di cogliere il tempo che stiamo attraversando, forse del primo vero dramma scritto oggi sull’Italia di oggi».
I protagonisti sono personaggi tipici di un piccolo paese di provincia, microcosmo di un paese molto più grande, i cui tentacoli arrivano in Europa. Oltre il sindaco e il vigile urbano citati, si muovono segretarie, imprenditori onesti, addetti stampa alquanto fantasiosi, consulenti finanziari, gelatai che chiudono per non pagare il pizzo. Ci sono anche due cacciatori di nutrie che al lettore fanno pensare ai topi della Peste di Camus, o a I rinoceronti di Ionesco.
Il volume contiene un’antologia critica e una vasta bibliografia sul tema della mafia.
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Una stagione teatrale lontana dal presente
Il teatro non è mai immune da ciò che accade nella vita sociale, anzi ne è il testimone visibile e invisibile, suo compito è quello di sviluppare il pensiero critico col solo mezzo che ha a disposizione, quello del linguaggio scenico che può essere di tipo rappresentativo o performativo.
Milano ha scelto, con i suoi teatri più importanti, il primo tipo, con abbondanza di adattamenti, riscritture, rielaborazioni di classici antichi e contemporanei e con risultati che accontentano il botteghino. Mantenere uno stile, un’idea per cui si è nati, è diventato alquanto difficile. Spettacoli come La tragedia del vendicatore al Piccolo o come Afghanistan all’Elfo o Un cuore di vetro in inverno di Timi al Parenti, lasciano un segno, ma non indicano un nuovo tracciato nell’ambito di un futuro diverso, al quale si sforzano di dare un contributo nuovi gruppi o Collettivi che, pur visti a Milano, fanno ricerca in altre sedi, con risultati molto referenziali, con cast diseguali, con molta libertà nella recitazione.
Si tratta di Collettivi che cercano l’effetto scandalo o la cronaca che fa notizia. C’è da dire che neanche le due sedi dove si fa ricerca, ZONA K e Triennale Teatro dell’Arte, si siano contraddistinti per continuità, benché spettacoli come Nachlass, My Documents, Project Mercury, Perhaps all the Dragons abbiano creato uno spiraglio di ricerca alternativa, tutta di matrice straniera, dove ad imporsi è proprio il teatro performativo che cerca di dare voce al presente, facendo uso della tecnologia e di piattaforme digitali.
Molti di quelli che si ritengono performer sono attori mancati. Per questo motivo, consiglio loro di leggere il volume, appena uscito, di Richard Schechner: Introduzione ai Performance Studies, edito da Cue Press. Comincio col dire che la Performance appartiene a una tradizione interculturale antica, con delle forme specifiche, con le quali si manifesta, che coinvolgono discipline diverse. Si potrebbe affermare che si tratti di uno spettacolo-evento, da considerare qualcosa di unico e irripetibile, tanto che luogo e tempo derivano dall’evento stesso, essendo caratterizzati dalla simultaneità, oltre che dalla casualità.
In molti casi, si tratta del teatro senza spettacolo, quello che fu, per esempio, teorizzato da Carmelo Bene, in qualità di direttore della Biennale di Venezia (1989-91), quando portò in scena il Nulla, a dimostrazione di essere stato un vero performer, oggi ricordato come tale, dato che i suoi testi, senza di lui, non possono avere vita scenica. Schechner offre un ‘manuale’ che contiene molti interventi di studiosi che si sono occupati dell’argomento e che propongono un panorama internazionale sugli studi che hanno caratterizzato la storia della Performance e del suo rapporto con le Arti dello spettacolo, dei Rituali, del Gioco, della Recitazione, dei Processi formativi, sia globali che interculturali.
Egli cita più volte Goffman, autore di un classico della sociologia: La vita quotidiana come rappresentazione (1959), in cui lo studioso utilizza la metafora teatrale, direi con grande competenza, da applicare alla vita sociale, ma cita anche i suoi incontri con Victor Turner, al quale dobbiamo due altrettanto classici, pubblicati nel 1986: Dal rito al teatro e Antropologia della Performance, della quale vengono affrontati i diversi generi. Schechner si mette in continua relazione con Turner, teorizzando la sua idea di Performance, da intendere come una sequenza di atti simbolici che hanno a che fare con la vita dei popoli e dei loro ‘drammi sociali’, tanto che il suo carattere di messinscena si interseca, in molti casi, con gli accadimenti sociali, evidenziando le crisi che producono tutte le situazioni liminali.
Il teatro è ancora necessario? Lo sarà finché darà voce al presente e ai dubbi della nostra esistenza.
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Necessità e utopie degli Stracci della memoria
«Ricucire i resti delle nostre differenti memorie (individuali, storiche, antropologiche) e ripararne i traumi nell’unità di uno spettacolo-rito». Una proposta deflagrante, utopica, forse la diremmo provocatoriamente fuori moda, oggi, e perciò più che mai necessaria.
È questo il senso di Stracci della Memoria, progetto internazionale pluridecennale di ricerca e formazione nelle arti performative a cura di Instabili Vaganti e ora titolo del volume dedicato al loro lavoro. Lo riporta bene nella prefazione di Silvia Mei, Sulle rive della memoria, facendo emergere le tre principali direttive, che si riversano l’una sull’altra a cascata, intrecciandosi nei diversi capitoli della loro esperienza: il ‘viaggio’ come azione fondamentale, destrutturante e stimolante, attraverso la quale la compagnia bolognese recupera questioni e stimoli; l’importanza, dunque, dell’idea di ‘spazio’ come luogo soggettivo e aperto; infine l’abbattimento della barriera linguistica, ‘l’universalizzazione del linguaggio’ come corollario necessario alle prime due.
Un testo che nasce da dentro, dalla volontà di Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola – performer, registi e pedagoghi – di raccontare le proprie modalità formative in giro per il mondo, dal Kosovo a Matera, dal Messico alla Cina. Emergono due forze speculari e necessarie l’una per l’altra: una prima esplosiva, che pone sul piatto differenti forme artistiche incontrate e desiderate, i diversi linguaggi, diversi luoghi e diversi approcci; e dall’altra parte una forza aggregativa, che prova dunque a ricucire, a mettere insieme, a dare un senso all’entropia contemporanea.
Un bisogno di unità, che prende la «forma di brandelli d’arte dispersi in ogni luogo», come afferma Dorno nella sua dichiarazione introduttiva, quasi un manifesto del proprio lavoro, iniziato nel 2006 e che ha come parola totem la memoria, nella sua azione di recupero e al contempo di necessaria selezione. Su tutto aleggia almeno un nome, fondativo della ricerca teatrale secondo-Novecentesca: quello di Jerzy Grotowski, punto di riferimento, fonte storica e critica, a cui si accompagnano altri numi tutelari, da grandi letterati del passato ad alcuni studiosi contemporanei.
In questo volume, edito da Cue Press nel 2018, i capitoli centrali presentano singolarmente le tappe del percorso di Instabili Vaganti e in maniera chiara restituiscono i concept di lavoro, i workshop, le performance e le loro temporanee conclusioni, raccordate da conversazioni con gli artisti, testimonianze e restituzioni critiche provenienti da tutto il mondo. Conseguenza naturale e, quasi radice ante litteram di questi Stracci, è anche il recupero del diario di bordo pubblicato dal 2014 al 2016 da «fattiditeatro.it» che, come racconta Simone Pacini, derivava dall’esigenza della compagnia di restituire l’intensità delle esperienze artistiche e umane vissute.
Infine, una galleria fotografica restituisce quella forza materica di «corpi in presenza», ombre granitiche stagliate su un video, sulla granulosa terra, bendate, bagnate, affaticate. «Memorie sotterranee» pronte a esplodere, per poi ritrovarsi ricucite in una utopica e necessaria grammatica dell’uomo.
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Stracci della memoria
C’è un respiro profondo nelle pagine di Stracci della memoria, il volume edito da Cue Press nel quale Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola, fondatori di Instabili Vaganti, attraversano la genesi e lo sviluppo, composito, frammentario, fervido, dell’omonimo progetto internazionale di ricerca e di formazione nelle arti performative da loro ideato, e che dal 2006 li conduce in giro per il mondo.
Un percorso dettagliato nelle sue varie articolazioni che esplora le sinergie e gli innesti fra nuove modalità di espressione artistica e di comunicazione teatrale, tramite l’interazione con discipline quali l’antropologia culturale, le arti visive, i nuovi media, la danza, la musica. E che ora affida alla forma aperta di un libro, che è al contempo antologia di visioni, mappa esplorativa, galleria fotografica, il racconto vibrante di un’esperienza che parla di teatro e al teatro.
Anna Dora Dorno, regista, attrice, pedagoga della compagnia, scrive nell’introduzione: «Nato da un’assenza, o meglio, come reazione a una mancanza, di spazi, risorse e condizioni che erano per noi indispensabili, Rags of Memory [Stracci della memoria] ci ha consentito di trasfigurare in modo creativo la nostra precarietà, sviluppando uno specifico metodo di lavoro capace di utilizzare differenti forme artistiche, in base alle risorse, ai mezzi e ai luoghi che avevamo a disposizione in quel preciso momento».
Sperimentazione, dunque, e un continuo contagio di esperienze, metodi e tecniche apprese dagli attori, artisti visivi, musicisti e performer incontrati nei diversi paesi che hanno ospitato il progetto, partendo da Bologna per arrivare alla Polonia, Romania, Kosovo, Svezia, Tunisia, Armenia, India, Cina, Corea, Messico, Cile.
Provare a ricomporre nella pagina la complessità di questo processo artistico e delle fasi che l’hanno segnato, dall’elaborazione fino alla sua maturità performativa, significa affidarsi alla scrittura e alla sua capacità di rinnovarsi nel tempo, per farsi deposito vivo della memoria. Memoria che, nella sua triplice accezione di individuale, storico-sociale e antropologica, costituisce il fulcro d’indagine e dell’evoluzione del progetto di Instabili Vaganti, che ne ricuce insieme i pezzi nello spazio rituale di uno spettacolo dalla geografia diffusa.
«Il fine è quello di scoprire l’essenza dell’atto performativo, di giungere al nucleo primitivo dell’azione, al movimento puro, alla scomposizione del testo in parole essenziali, del brano musicale in effetti sonori, della melodia in forme ritmiche di base, nel tentativo di definire una nuova ritualità». E sfogliando il testo siamo in grado di rintracciare nella sua anatomia ibrida quel movimento creativo e quella necessità che hanno dato origine a l’intero percorso.
A partire dal capitolo iniziale dedicato alla memoria del corpo e agli impulsi che generano l’azione performativa, di fatto, la prima fase di ricerca nella genesi di Stracci della memoria. Passando, nel secondo capitolo, alla memoria collettiva e alla sua capacità di farsi carne nel corpo dell’artista, attraversandolo di ricordi personali e dell’umanità tutta. Nel terzo capitolo, la ricerca di Instabili Vaganti giunge a toccare il suo ultimo punto d’indagine, scoprendo nell’internazionalità degli artisti chiamati a raccolta, la possibilità unica di ricostruire un’identità collettiva fluida, nutrita dalla tradizione ma con lo sguardo puntato al presente e alle sue contaminazioni. Si arriva, poi, alle attività pedagogico-formative realizzate in giro per il mondo, vero cuore pulsante di Stracci della memoria, per il confronto culturale e il dialogo multidisciplinare che hanno attivato.
Due gli iter formativi testati grazie all’esperienza verificata sul campo: il primo, destinato ad avvicinare performer professionisti al training e alla metodologia creati, consiste in sessioni internazionali di ricerca; il secondo, volto ad ampliare il raggio d’azione delle persone coinvolte e da coinvolgere nel progetto, è rappresentato dai workshop.
Il volume dedica un’intera sezione ai diari di viaggi pubblicati da Instabili Vaganti sulla webzine di Simone Pacini «fattiditeatro.it», con il racconto delle trasferte mondiali della compagnia, tra cui le tappe in Tunisia, Corea del Sud, India, Cina di Rags of Memory. Una collaborazione nata nel 2014 e che ad oggi conta più di sessanta post. Una galleria di immagini e una cronologia a compendio delle diverse tappe del progetto, chiudono il volume, lasciando a un ultimo, aperto affondo finale, lo spazio per interrogarsi su quello che sarà dopo.
Chiosa Silvia Mei nella sua prefazione: «Stracci della memoria non conclude la sua parabola col libro che lo racconta. È piuttosto il volume a rilanciarne la forza e a permettere nuova circolazione al progetto». Percorrerlo con le dita significa addentrarsi in un non-luogo del ricordo, che continua a ridisegnare la sua strada.
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Martinelli, drammaturgo tra testo e scena nel libro di Maria Dolores Pesce
In che modo l’atto dello scrivere si innesta nella disciplina di un gruppo teatrale? Sappiamo quanto l’autore sia sempre una sorta di terzo incomodo alle prove. Un caso esemplare è quello raccontato in Romanzo teatrale di Bulgakov, che ci consente di entrare in pieno nell’universo frustrante (per l’autore), ma non meno sconcertante per gli attori e il regista (in questo caso gli attori del teatro d’arte e il demiurgo Stanislavskij), delle prove di un testo in vista dello spettacolo.
È un reticolo di incomprensioni che nel caso di Bulgakov si trasforma via via in vera e propria – neanche troppo celata – ostilità. Ma Bulgakov non era un poeta di compagnia. La figura del poeta di compagnia o del drammaturgo organico in qualche modo dovrebbe scavalcare i problemi posti dalla divaricazione tra testo letterario e spettacolo e dunque tra autore e teatro materiale. Per drammaturgo organico alla fine s’intende uno che faccia parte del gruppo e della sua vita quotidiana.
[…]
Il dramaturg, presente specialmente nella tradizione teatrale europea, soprattutto tedesca e anglosassone, nella quale è una figura istituzionale, è colui che s’incarica di mediare tra autore e regista, facendosi garante delle esigenze di entrambi. Il cortocircuito qui è dato dal fatto che Martinelli sembra proprio riunire nella propria prassi le tre figure autorali. Egli è sia inventore di testi, sia adattatore degli stessi per la scena, sia regista dei suoi spettacoli. […] La drammaturgia di Martinelli, sia quando è originale che quando è costruita a partire da opere di altri autori, è una triangolazione che parte dal rapporto con la materialità della scena che tutta la compagnia incarna: attori, tecnici, costumisti, scenografi, tutti uniti a formare un articolato tessuto di stimoli-risposta da cui la creatività del drammaturgo si muove per la scrittura.
Processo questo che può conoscere una singolare forma di intensificazione e dunque di irradiazione nel tempo perché si attua nel contesto di un gruppo dove il nucleo artistico è rimasto grosso modo stabile nel tempo: se si parla di compagnia, qui si parla in fondo anche di micro-società degli attori (espressione tuttavia non utilizzata dalla studiosa, che introduciamo qui per spiegarci meglio). Un gruppo i cui membri non sono cambiati nel corso dei lunghi anni di vita del teatro, così da creare un sistema complesso dove l’etica comunitaria del lavoro (per esempio le paghe uguali per tutti a prescindere dal ruolo), il comune orizzonte progettuale, la condivisione di una prospettiva anche esistenziale, hanno creato uno straordinario e complesso organismo vivente.
È a partire dalla vita di questo tipo di gruppo, dalle dinamiche ideative autorali che si incarnano in una prassi attoriale dove le biografie stesse degli attori ‘storici’ (Montanari, Dadina) fanno come da reagente alchemico nella costruzione dei ruoli, che Martinelli si muove per dare vita alle sue drammaturgie: «È quindi una scrittura che distilla una presenza scenica […], una presenza in cui si stratificano le storie esistenziali di ciascuno ed emergono i ricordi, anche quelli persi per strada, e le aspettative, anche quelle più segrete».
Il testo così costruito, sarà il frutto di una «scrittura, tra l’altro, in grado anche di capitalizzare, dal punto di vista letterario, il plus-valore prodotto dal lavoro di tutti», e sarà scritto in «una lingua che deve essere detta in scena, ove trova il luogo della sua potenza, ma insieme diventa una lingua letteraria che può essere ripetuta e capita nel silenzio della lettura».
Del resto, sia detto per inciso, a latere delle argomentazioni della studiosa, alla prova dei fatti è innegabile la forza intrinseca dei testi di Martinelli anche alla lettura su pagina. Ben percepibile per esempio nell’ultima pubblicazione del drammaturgo: il testo dello spettacolo Va pensiero, edito qualche mese fa da Cue Press, dove la forza di un teatro-cronaca poetico ed epico si appoggia al tratto grottesco dei suoi personaggi, ispirati ai protagonisti di un fatto di cronaca esemplare di una certa collusione tra politica territoriale e criminalità organizzata (un fatto di corruzione nella pubblica amministrazione di un paese della Romagna ad opera della mafia calabrese), in una scrittura che prevede la scena, i movimenti di servizio, le luci, le musiche, l’intervento del coro operistico senza mai perdere di tensione drammatica, inoltre manifestando al suo interno, per lampi, per immagini, come una dimensione lirica di cupa profezia, di fato implacabile, di hybris.
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Teatro d’origine di Angela Demattè
I testi di Angela Demattè raccolti in questa elegante pubblicazione a cura di Cue Press sono effettivamente, come da titolo, legati tra loro dalla tematica dell’origine. In genere si potrebbe parlare di ispirazioni autobiografiche dell’autrice, ma il termine origine non è soltanto questo, è molto di più.
Origine è la terra da cui veniamo, la cultura, il dialetto, la nostra famiglia. È inoltre il tessuto socioculturale in cui si sono formati, anche se in diversi periodi storici, protagonisti della cronaca recente. È proprio quest’ultimo il caso del primo testo che apre la trilogia, il celeberrimo, premiato e plurirappresentato Avevo un bel pallone rosso storia del rapporto di un padre ed una figlia durante la trasformazione della ragazza da universitaria studiosa e tranquilla a quella Margherita Cagol che fu la cofondantrice delle Brigate Rosse. Qui l’evoluzione della personalità e dei pensieri della protagonista appaiono come un graduale sradicamento dalle sue origini. Il padre tenta di seguire questa evoluzione come può, grazie al grande amore che nutre per la figlia.
Più complesso ed articolato il secondo lavoro: L’officina, storia di una famiglia che attraverso rapidi quadri e brevi dialoghi ripercorre quasi un secolo di storia della società trentina (ma anche quella italiana) grazie alle vicende emblematiche di una famiglia, ispirata a quella della stessa autrice. Il fulcro della storia è il lavoro, dalle origini agricole a quelle artigiane per finire alla società attuale caratterizzata dall’economia terziarizzata e globale.
Chiude la raccolta il recente Mad in Europe che in un certo senso rappresenta un rovesciamento degli altri due lavori. Mentre infatti le drammaturgie precedenti scandiscono un progressivo allontanamento dalle origini questo testo, meno realista e più simbolico, traccia il ritorno al proprio dialetto, e quindi alla propria cultura originaria, a partire da una condizione estremamente globalizzata e in qualche modo confusa, condizione resa evidente dal linguaggio della protagonista che è un miscuglio di varie lingue.
La prefazione del volume è affidata al regista che più di ogni altro si è confrontato con i lavori della drammaturga trentina: Carmelo Rifici. Chiude la pubblicazione un bell’intervento di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari.
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Uno spettacolo senza spettacolo. Cioè performance. Finché non ebbe a che fare con crisi e drammi di popoli. E fu Living
Consiglio a tutti gli amanti del teatro, della danza, della musica, di leggere il volume di Richard Schechner: Introduzione ai Performance Studies, edito da Cue Press, trattandosi di un viaggio, ricco di mappe, annotazioni, interventi di studiosi, bibliografia comparata, che permette di addentrarci in un argomento di cui, in maniera impropria, si è fatto un uso e abuso sproporzionato, visto che sembra tutto sia diventato performativo.
La Performance appartiene a una tradizione interculturale antica, con delle forme specifiche, con le quali si manifesta, che coinvolgono discipline diverse. Si potrebbe affermare che si tratti di uno spettacolo-evento, da considerare qualcosa di unico e irripetibile, tanto che luogo e tempo derivano dall’evento stesso, essendo caratterizzati dalla simultaneità, oltre che dalla casualità.
In molti casi, si tratta del teatro senza spettacolo, quello che fu, per esempio, teorizzato da Carmelo Bene, come direttore della Biennale di Venezia (1989-91), col contributo di Umberto Artioli, quando portò in scena il Nulla, a dimostrazione di essere stato un vero performer, oggi ricordato come tale, dato che i suoi testi, senza di lui, non possono avere vita scenica.
Perché senza spettacolo? Forse perché la Performance, non solo non è durevole, ma anche perché non è mai eguale a se stessa, essendo oggetto di accadimenti temporanei. A base di questa sua provvisorietà, credo, ci sia la simultaneità, dato che convivono in essa sia la percezione che la relazione che alimentano, a loro volta, l’immaginario e che creano delle emozioni anch’esse provvisorie, conseguenze di prestazioni di breve durata.
Performance non deriva, infatti, da forma, bensì da fornire, ovvero offrire qualcosa che possa promuovere la nostra sensorialità. Di Schechner, Bulzoni aveva pubblicato La teoria della Performance, 1970-1983, a cura di Valentina Valentini (1984), mentre De Donato, nel 1968, aveva pubblicato La cavità teatrale, dove furono enunciati i postulati di una rivoluzione copernicana nel rapporto tra arte e realtà. Il volume raccoglieva saggi e interventi che costituivano il manifesto del dissenso teatrale americano che il Living esportò in Europa. Per costoro, la Performance consisteva nel fornire una prestazione, nel dare, alla logica dell’azione, dei significati, non solo rappresentativi, ma anche sociali e politici, nel creare delle emozioni diverse, nel fare, del luogo, uno spazio permanente di ricerca.
Nel volume, pubblicato da Mattia Visani, con prefazione colta di Marco De Marinis e con la cura di Dario Tomasello, autore di un capitolo conclusivo sulla via italiana alla Performance Studies, arricchita da una analisi bibliografica di tipo comparatistico, Schechner offre al lettore un ‘manuale’ che contiene molti interventi di studiosi che si sono occupati dell’argomento e che propongono un panorama internazionale sugli studi che hanno caratterizzato la storia della Performance e del suo rapporto con le arti dello spettacolo, dei Rituali, del Gioco, della Recitazione, dei Processi formativi sia globali che interculturali.
Schechner cita più volte Goffman, autore di un classico della sociologia: La vita quotidiana come rappresentazione (Il Mulino, 1959), in cui lo studioso utilizza la metafora teatrale, direi con grande competenza, da applicare alla vita sociale, ma cita anche i suoi incontri con Victor Turner, al quale dobbiamo due altrettanto classici, pubblicati nel 1986, sempre dal Mulino: Dal rito al teatro e Antropologia della Performance, della quale vengono affrontati i diversi generi. Schechner si mette in continua relazione con Turner, teorizzando la sua idea di Performance, da intendere come una sequenza di atti simbolici che hanno a che fare con la vita dei popoli e dei loro ‘drammi sociali’, tanto che il suo carattere di messinscena si interseca, spesso, con gli accadimenti sociali, evidenziando le crisi che producono delle situazioni liminali.
Alla fine di ogni capitolo, Schechner propone esercizi di discussione ed esercizi performativi, molto utili per quella generazione di performer, alcuni professionisti, altri dilettanti, che potranno usufruire di una lezione di metodo con cui confrontarsi nel momento in cui hanno scelto questa attività.
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Anna Barsotti, Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile
Anna Barsotti con Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile (Cue Press, 2018) torna ad occuparsi di uno degli autori-attori più emblematici della drammaturgia italiana del Novecento. Non nuova al teatro di Eduardo (ricordiamo Introduzione a Eduardo, per Laterza, 1992; Eduardo drammaturgo, per i tipi Bulzoni, 1995; la cura per Einaudi dell’edizione della Cantata dei giorni dispari, 1995, e della Cantata dei giorni pari, 1998; la monografia Eduardo sempre per Einaudi, 2003 e infine Eduardo, Fo e l’attore del Novecento, Bulzoni, 2007), Barsotti ristampa con Cue Press il volume laterziano del 1992 inserito nella prestigiosa collana di Giuseppe Petronio, Gli scrittori, dedicata ai grandi autori italiani e stranieri. Il suo studio aveva una portata rivoluzionaria visto che il grande drammaturgo napoletano era all’epoca considerato certamente un grande attore, ma non entrava nel pantheon degli scrittori-autori.
Il volume, in una rinnovata veste grafica, si conferma ricco di spunti e di analisi dettagliate e ri-propone una ricognizione intorno alla figura, all’opera, al mestiere e all’esperienza di Eduardo. Barsotti, da instancabile studiosa, ripensa il testo originario aggiungendo un capitolo conclusivo, Leitmotiv della comunicazione difficile, un paragrafo sulla problematica cronologia di Natale in Casa Cupiello, in cui condivide con il lettore una lettera privata con la quale Eduardo le risponde sulle fasi dell’itinerario compositivo della pièce (il discorso sulla cronologia delle opere eduardiane sarà ripreso anche nell’ultimo capitolo Il romanzo teatrale eduardiano. Su edizioni e varianti delle ‘Cantate’ di Eduardo De Filippo), e una Bibliografia ampliata alla luce dei numerosi studi che si sono susseguiti in anni più recenti. Ogni capitolo si apre poi con un’epigrafe tratta da un’opera di Eduardo (o da altri autori), che serve a sottolineare come nei suoi testi si insista sulla «difficoltà intersoggettiva del dialogo, […] oscillante tra affabulazioni e silenzi» e ci consente di muoverci all’interno del grande «romanzo eduardiano».
Il volume inizia con il racconto dello status di figlio di due padri-maestri, come sono definiti dall’autrice Eduardo Scarpetta e Luigi Pirandello, entrambi fondamentali per la crescita umana e professionale di Eduardo. Il primo gli trasferirà quel rispetto verso il mondo dialettale che gli consentirà di far interagire lo spettacolo popolare con il teatro colto; il secondo porterà Eduardo, che aspirava già a «un teatro senza confini» (Meldolesi) a sperimentare ed elaborare un linguaggio diverso, ma sarà anche il motivo della rottura con il fratello Peppino e il passaggio dal ‘Teatro Umoristico I De Filippo’ al ‘Teatro di Eduardo’. Segue l’analisi della drammaturgia di Eduardo che oscilla costantemente tra la rappresentazione dell’individuo isolato in un mondo che non lo comprende e con cui non riesce a comunicare e la resa dei suoi tentativi al fine di costruire un rapporto con gli altri. E questi ‘altri’ sono anche gli spettatori, di ieri e di oggi.
Attraverso i tanti esempi presenti nel volume, ricchi e puntuali, il lettore entra nell’universo eduardiano fatto di quella impossibilità comunicativa tra uomo e uomo, individuo e società, io e mondo. Barsotti, attraverso la ricerca sui testi e le dichiarazioni di poetica di Eduardo, ripercorre la sua produzione: da Ditegli sempre di sì (1927), in cui il protagonista, Michele, tenta di comunicare col mondo, a Sik Sik (1929), in cui la comunicazione che si vuole attivare è tra ‘l’artefice magico’ e il suo pubblico; da Natale in casa Cupiello (1931/1943) a Napoli milionaria! (1945), dove l’itinerario familiare di Eduardo è costellato di persone che, pur vivendo sotto lo stesso tetto, patiscono la solitudine. Sullo sfondo si agitano i cambiamenti della Nazione: dalla guerra al boom economico, fino ad arrivare alla perdita degli antichi valori legati alla famiglia.
Con il suo teatro Eduardo ha sempre promosso il dialogo con il suo pubblico, ed ecco l’analisi della cosiddetta ‘trilogia sociale’ (De Pretore Vincenzo, 1957, Il sindaco del Rione Sanità, 1960, e Il contratto, 1967), fino a Gli esami non finisco mai (1973), definita dalla studiosa «una tragedia moderna», che costituirebbe l’esempio più radicale di «comunicazione difficile» in cui il protagonista, Guglielmo Speranza, approdato a un muto isolamento, non rinuncia al rapporto con il pubblico con il quale gioca durante tutta l’opera, eleggendolo a interlocutore speciale.
Nella drammaturgia post bellica di Eduardo l’alchimia tra silenzio e parola diventerà fondamentale: il piccolo borghese napoletano si trasforma in «maschera assoluta della sconfitta esistenziale». Questo tema novecentesco dell’impossibilità comunicativa, che avvicina secondo Barsotti Eduardo a grandi drammaturghi del calibro di Ionesco, Beckett (l’assurdo è un terreno anche eduardiano), sembra toccare il suo punto di non ritorno in quest’opera, ma De Filippo, che ha stretto un patto con il «personaggio in più», lo spettatore, ripone proprio in lui un’ultima speranza poiché la comunicazione rimane, nonostante tutto, lo «strumento dinamico di un nuovo umanesimo».
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Eleonora Duse torna sulla scena
Improvvisamente ritorna all’attenzione del pubblico, sui giornali e alla televisione, l’immagine di Eleonora Duse. Perché? Non ricorre in questi giorni alcun anniversario, nessuna particolare occasione celebrativa è prevista. Che succede? Da quale soprassalto della memoria collettiva scaturisce una volta di più questo fantasma inquietante? Per iniziativa dell’Ente Festival di Asolo una mostra sulla ‘divina’ si è inaugurata in questi giorni a Palazzo Venezia, ideata e ordinata da quel grande specialista dusiano che è Gerardo Guerrieri; due libri, che hanno avuto l’alloro del premio Curcio sono usciti contemporaneamente il mese scorso: L’attrice divina di Cesare Molinari (Bulzoni editore) e Eleonora Duse di William Weaver (Bompiani), esaurientissima biografia, già apparsa, nel 1984, a Londra.
Queste sono le occasioni di cronaca, ma esse non possono bastare ai nostri interrogativi. In realtà c’è in questi anni, negli studi italiani sul teatro, un recupero della figura del grande attore pre-novecentesco, quasi un ritorno ai padri. Ma forse, al di là di questo interesse scientifico, c’è anche, sollecitata dai documenti che sempre più numerosi affiorano (benemerite in questo senso l’attività del Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, diretto da Sandra D’Amico e le ricerche di quella puntigliosa rivista che è «Quaderni di teatro»), una fascinazione del tempo perduto, quasi lo sciogliersi d’un grumo di memorie inconsce, che del teatro, arte che vive lo spazio d’una sera, immagine che si fa subito assenza, è il residuo, il colaticcio si vorrebbe dire, più doloroso e tenace.
Questo, poi, con l’immagine della Duse è quasi inevitabile. Si riassume in lei il senso di un tempo e di un teatro, in quell’Italia post-risorgimentale. E la sua solitudine in quel mondo – la solitudine del precursore – e le sue due grandi vicende sentimentali, prima con Boito poi con D’Annunzio, la condanna al nomadismo, i pubblici in delirio per lei dalla profonda Russia alla New York pionieristica di fine Ottocento, la malattia, le lettere in cui versò a sussulti la storia quasi quotidiana della sua anima, i grandi scrittori, da Shaw a Hofmannsthal a Rilke, che le dedicarono pagine entusiaste o estatiche, l’esilio ad Asolo, il ritorno al teatro nel 1921, l’ultima tournée in America, fino a quella sosta sotto la pioggia gelata, davanti alla porta chiusa d’un palcoscenico a Pittsburg: tutto ciò si compone, nella nostra memoria inconscia, come un nodo d’angoscia, la macchia d’un rimorso che non si essicca. Perciò scrissi una volta: con la Duse siamo giunti al dunque, basta con le lacrime. Come dire che è arrivata l’ora della risistemazione critica, definitiva, che bisogna mettersi a lavorare, su quanto ci resta di lei, non più per rievocare ma per ragionare.
Tutti i segni dell’attuale revival dusiano sembrano andare in questa direzione. La mostra ideata da Gerardo Guerrieri non è una mostra di cimeli. Il cimelio in bacheca spreme inevitabilmente un certo patetismo per il fatto d’aver appartenuto, oggetto o scrittura, alla persona scomparsa. Qui di veri e propri cimeli dusiani non ci sono che alcune vesti da camera, offerte da Sister Mary Mark, la nipote di Eleonora, la figlia di sua figlia Enrichetta, che è suora domenicana in un convento inglese; l’unica discendente dell’attrice: e dava una certa emozione vederla aggirarsi per quelle sale di palazzo Venezia o seguire, su un video, le immagini di Cenere, il solo film interpretato – e praticamente diretto – dalla Duse.
l cimeli naturalmente ci sono (lettere, fotografie, articoli di giornali, manifesti) ma vengono proiettati su schermi e intanto voci registrate rendono vive memorie, testimonianze, racconti (c’è per esempio, a interpretare alcune lettere della Duse, la voce di Valeria Moriconi). Insomma, vuol essere, almeno nelle intenzioni, una mostra-spettacolo; ma una mostra-spettacolo che si attiene a criteri rigorosamente storico-critici. Guerrieri sostiene che la vicenda e la stessa arte della Duse non si possono ripercorrere che rifacendosi alla letteratura.
Dopo un proemio, Ricordi familiari; dal nonno Giacometto allo zio Enrico, ecco il capitolo Napoli 1879, cioè la città e l’anno in cui la allora giovanissima attrice (ventunenne) si rivelò, recitando accanto a Giovanni Emanuel e a Giacinta Pezzana e dove ebbe la nota disavventura amorosa con Martino Cafiero, il galante direttore del «Corriere del Mattino» (c’è un gustosissimo, tra malinconico e cinico, ritratto di questo seduttore, firmato da un altro noto giornalista di quel tempo, Ferdinando Verdinois). Poi la sezione intitolata Arrigo e Lenor, dedicata al rapporto fra la Duse e Boito e a quel loro enorme romanzo epistolare pubblicato cinque anni fa dal Saggiatore, a cura di Raul Radice.
Boito – dice Guerrieri – in fondo tentava di sottrarla al teatro. Il teatro, per lui, era la causa dei suoi mali, il tarlo che la corrodeva: quelle opere cui sei condannata, le diceva, basse, volgari. I successi ottenuti a prezzo della salute, della vita. La nausea del teatro, la fuga verso un avvenire di verde serenità fu il leitmotiv del loro rapporto. Segue la sezione dedicata al capitolo centrale, il più drammatico, di quella che fu davvero una vita inimitabile: il capitolo D’Annunzio. Poi la ripresa disperata del vagabondaggio, più sola ma anche più forte, la grande fase ibseniana, il ritiro dal 1909 al 1921, le testimonianze dell’ultimo viaggio in America, fra le quali un emozionante articolo di Charlie Chaplin che la vide ne La Porta chiusa di Praga, due mesi prima della sua morte: «Evidentemente, è una donna molto vecchia e non fa nulla per nasconderlo ma c’è qualcosa in lei che fa pensare a un bambino, un bambino dolente…»
A parte, in un’altra saletta, il momento cinematografico della Duse, quello che ci diede il suo unico film, Cenere. E qui è buona l’idea di mettere a confronto, su tre video uno accanto all’altro, le magre, già neorealistiche sequenze di Cenere con il floreale e il melodrammatico dei film di Francesca Bertini, Maria Jacobini, Pina Menichelli, la produzione cinematografica italiana di quegli anni, da una parte; e, dall’altra, il linguaggio nuovo di David Griffith, dal quale, nel 1915, la Duse ebbe un’offerta per un film e forse si trattava di Intolerance.
«E vedi – dice Guerrieri – come, da Cenere e poi nei tre anni di ritorno al teatro, dal 1921 fino alla morte, la Duse non abbia interpretato, prevalentemente, che ruoli di madre. Cosi, come in gioventù aveva assunto su di sé, per darle voce e volto la nevrosi della donna di fine secolo, quella scontentezza, quel pianto o quell’allegria stralunata e febbrile, ecco che da vecchia si fa interprete di tutte le materne gramaglie del mondo su cui era passata la guerra.
Forse è per questo che gli studi su questa attrice si sono sviluppati per sessant’anni soprattutto lungo il solco della sua vicenda esistenziale, trascurando di approfondire, salvo eccezioni, al di là delle citazioni d’obbligo (gli scritti di chi la vide sulla scena) una vera analisi, certo a posteriori, certo un po’ alla cieca, sui suoi modi interpretativi. Il fatto è che davvero, con lei, è difficile distinguere l’arte dalla vita.
Il libro di Cesare Molinari ha questo indubbio merito. È un’indagine che cerca, penetrando nella selva delle testimonianze e mettendole a confronto anche con le rare contraddizioni e modifiche successive (perché la Duse cambiava di continuo le proprie interpretazioni), d’estrarne il profilo dell’attrice più che il madido ritratto della donna. In questo senso ci interessa più della pur aggiornatissima biografia dell’italianista americano William Weaver, che è ricca di notizie e documenti inediti, specialmente sulle tournées dell’attrice negli Stati Uniti.
Ma nel libro del Molinari c’è un capitolo, La polemica dello stile, che è a nostro parere un apporto notevole negli studi dusiani. La polemica dello stile fu quella dei contemporanei che, sconcertati dalla novità di quella recitazione, non è che si adeguarono tutti nelle lodi. Ci furono, specialmente sul principio, oppositori accaniti che a quella spezzettata e nevrotica della Duse preferivano la recitazione limpidamente classica e vibrante delle ‘prime donne’ tradizionali, Adelaide Tessera, Virginia Marini, Giacinta Pezzana.
In fondo, la accusavano di aver distrutto il ruolo, accusa che non era poi infondata ché la Duse, apparentemente (in realtà non era vero), sovrapponeva se stessa al personaggio. E degli stilemi che, secondo le convenzioni correnti, il ruolo esigeva si era sbarazzata, a giudizio di quei critici, perché non era dotata dei mezzi necessari ad esprimerli: una voce che si arrochiva e si rompeva se appena forzata (la voce esile e svuotata dei tisici, uno ebbe la delicatezza di scrivere); un gesto frammentato, privo d’una linea armoniosa, che indugiava stranamente sugli oggetti sfiorandoli, carezzandoli; o, come a prendere forza, cercava contatti ripetuti e fuggevoli col volto, con le spalle del partner, alterando ogni misura di composizione scenica, turbando la geometria degli spazi e l’ottica degli spettatori (e quel suo incedere non mai propriamente eretto, sempre un po’ curvo in avanti o pencolante o all’indietro, correlativo gestico di una insicurezza, di uno squilibrio; quel passarsi le mani sul viso e sui capelli).
Di tutti questi sparsi elementi, del resto in fase di continua trasformazione fino a che si composero nell’essenzialità ascetica degli ultimi anni (la voce nuda e la chioma bianca di Ellida, La donna del mare) Molinari riesce a tramare lo sconvolgente concerto dusiano, ritracciando la lunga linea di quella sofferenza istrionica che attraversò mezzo secolo di teatralità italiana; e ancora è lì, come una ferita non medicata.
E un’altra novità importante c’è in questo libro: per la prima volta l’analisi del Fuoco, il romanzo dannunziano ispirato dalla relazione fra il poeta e l’attrice, che tanto scandalo fece quando uscì (1900), ma non dal punto di vista letterario, proprio come studio di quel rapporto, di quello che Eleonora definiva, in una lettera amara, «il segreto donato alla folla».
D’Annunzio, forse, con il suo teatro, non giovò alla Duse come attrice; la costrinse a indossare il manto rigido, faticoso e fastoso delle sue parole mentre lei era un’altra cosa, quel soffio intermesso, quell’angoscia spezzata, quella verità allibita e inerme. Non le giovò nel teatro (quantunque è dal loro incontro che per la prima volta ebbe diritto di circolazione in Italia un’idea più nobile e alta di quest’arte). Ma nessuno capì la donna e l’attrice come lui. Nelle pagine del Fuoco (e questo acuto saggista ce lo dimostra) Foscarina, cioè Eleonora, è la «donna in cui si incarna la sostanza primordiale e mitica, ideale e biologica della femminilità». Per questo essa realizza la simbiosi conturbante con l’attrice.
«Non c’è distinzione possibile fra le due cose: la donna è sempre attrice, e l’attrice è sempre la donna nell’inesauribile molteplicità delle sue fenomenologie…» Davvero in questo romanzo fosco e barocco, battuto dallo scirocco d’una Venezia crepuscolare, D’Annunzio toccò uno dei miti profondi del teatro, la fenditura della sua vita più intima; e in pari tempo «una donna non più giovane, dalle tempie inumidite, dalle palpebre simili alle violette» ci diede il ritratto segreto, l’unico che ci sia giunto, di colei che fu, debole, malata, disperata e fortissima, la più grande attrice di tutti i tempi.