Logbook

Approfondimenti, interviste, recensioni e cultura: il meglio dell’editoria e delle arti da leggere, guardare e ascoltare.

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20 Giugno 2018

Vita di Hans-Thies Lehmann che inventò il teatro moderno

Andrea Bisicchia, «Libero»

Mentre si celebra il cinquantesimo anniversario del Sessantotto con pubblicazioni teoriche, mostre, dibattiti, il teatro lo ricorda come uno dei momenti più rivoluzionari del secondo Novecento, quando a un’idea ormai formalizzante dei teatri stabili, si contrappose quella di un teatro alternativo che riguardava, non più il testo, bensì la lingua scenica.

La crisi fu tale che Giorgio Strehler abbandonò il Piccolo Teatro per creare una nuova formazione, mentre altre realtà, come il Pier Lombardo, si imposero grazie alla inventiva di Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah, Giovanni Testori. Un ventennio dopo circa, Hans-Thies Lehmann coniò il termine Il teatro postdrammatico, che divenne un libro pubblicato nel 1999 e che in Italia arriva oggi, con un ritardo impensabile, grazie a Mattia Visani, editore di Cue Press e alla traduzione di Sonia Antinori. Il ritardo non ha intaccato per nulla il lavoro di Lehmann che è la diretta prosecuzione di quello di Peter Szondi, autore di Teoria del dramma moderno (1980), e di quello di Richard Schechner, Teoria della performance (1988), studi che stanno all’inizio di quello che diventerà il postdrammatico.

Diciamo subito che il dramma è di matrice europea, che nasce dopo la dissoluzione del tragico, quando, all’interno di un salotto borghese, si potevano risolvere razionalmente anche le cose più scabrose. Al contrario, il postdrammatico appartiene a una cultura senza confini che attraversa le Americhe per approdare in Europa, dove trova un giusto collocamento. In che cosa consiste, allora, la differenza tra dramma e postdrammatico? Certamente in una percezione diversa del tempo e del luogo scenico, dovuta, come in certe avanguardie del passato, all’intrusione di concetti come simultaneità e multi-prospetticità che favoriscono una diversa lettura del linguaggio scenico da intendere, non più come conseguenza del dialogo tra i vari personaggi, bensì come elemento teatrale indipendente a cui corrisponderebbe una nuova logica estetica che si contrappone a quella dell’illusione mimetica. Come a dire che dal 1968 è nata una nuova costellazione nell’ambito teatrale, che ha messo in discussione alcune certezze metodiche fondate sulla declamazione o illustrazione del testo, senza accorgersi delle diverse esigenze degli arsenali scenici che hanno raccolto i nuovi ritrovati della tecnologia e che hanno permesso, al corpo e ai gesti, di trovare nuove potenzialità espressive.

Lehmann orienta il suo campo d’indagine verso gli eretici della scena internazionale, da Wilson a Fabre, a Goebbels, a Vassiliev, a Pina Bausch, Peter Brook, Grotowski, Barba, Kantor, Nekrosius, Foreman, senza dimenticare alcune realtà italiane come Raffaello Sanzio, Falso Movimento, Barberio Corsetti. Quali sarebbero, allora, i confini e i limiti imposti dal dramma, compreso quello di Brecht, da superare? Come scoprire il teatro teatrale? Cancellando i confini tra i generi, per spingersi verso i margini della teatralità o verso la ricerca delle origini e aprire lo spazio del discorso a quello del teatro, alla sua indipendenza, alla sua specificità, alla sua visionarietà; ponendo, al centro della ricerca, una drammaturgia visiva, accompagnata da una vasta gamma di modalità performative, favorendo, in tal modo, il ‘teatro del disturbo’, dell’iterazione, del lavoro di gruppo, del collettivo, delle installazioni, della festa comunitaria.

Per Lehmann, il futuro del teatro creativo non passa dalle istituzioni, bensì dai piccoli gruppi autogestiti che negano la figura stessa del regista, preferendo proprio quella collettiva. Si può, pertanto, affermare che il teatro postdrammatico non aspira a uno stile, a un genere, a una tipologia di forme affini, perché indirizza le sue preferenze verso il ‘processo teatrale’ scavalcando la composizione mentale dell’autore, virando la sua attenzione verso gli spazi virtuali o verso ordinamenti visivi che si impongono come nuovi linguaggi della scena.

L’edizione italiana del testo ha una postfazione erudita di Gerardo Guccini e interventi di Marco De Marinis, Lorenzo Mango, Antonio Attisani, Cristina Valenti e Marco Martinelli.

Ford
1 Aprile 2018

John Ford e la tragedia crudele

Laura Bevione, «Hystrio», XXXI-2

Nel 2003 Luca Ronconi ne offrì una doppia messa in scena: l’una con un cast misto, l’altra – filologicamente fedele e scenicamente assai efficace – con interpreti soltanto maschili. Peccato che fosse puttana è un dramma complesso e feroce, moralmente spregiudicato eppure percorso da un’indiscutibile ansia di rinnovamento radicale della società. Che è quella inglese della prima metà del Seicento, in cui il drammaturgo John Ford visse e lavorò. Ricostruire contesto storico e influenze letterarie e teatrali di quel play è uno degli obiettivi del volume curato da Pepe e Stevanato, che mirano, da una parte, a ricollocare nel corretto background culturale il teatro di Ford e, dall’altra, a svelare i motivi dell’oblio e poi della successiva riscoperta novecentesca di quel ‘fastidioso’ dramma che trattava di incesto ed efferatezze varie.

Ecco allora i saggi finalizzati a inserire il lavoro del drammaturgo inglese nella temperie barocca in cui egli operò e, poi, gli scritti che ne raccontano le riletture contemporanee, a partire da quella simbolista di Maeterlinck fino a quelle di Visconti e del succitato Ronconi.

Terzopoulos theodoros foto autore
1 Gennaio 2018

Dal mito all’istinto, un discorso sul metodo

Roberto Rizzente, «Hystrio», XXXI-1

Non ha bisogno di presentazioni, Theodoros Terzopoulos. Ospite, da qualche anno, al Vie Festival modenese, si distingue per l’originalità delle messinscene e la ferocia animalesca degli attori, entro i limiti di una geometria precisa, quasi wilsoniana, conciliando i poli della ragione e dell’istinto.

Di quell’universo misterico, Il ritorno di Dionysos svela i retroscena. Perché non è solo un orchestratore di corpi, Terzopoulos, ma anche un teorico. La sua strategia è mirata alla ricomposizione identitaria. A quell’Io regresso, unione degli opposti, eros e thanatos, che è inscritto nel profondo. Prima della fondazione del linguaggio, prima delle derive censorie della mente. Quel serbatoio di energie, dionisiaco, che, solo, può restituire all’individuo l’autenticità, oppressa, dissanguata e svilita dall’abuso odierno della tecnologia, la predilezione per il capitale, il materialismo imperante.

Quella che Terzopoulos propone è, allora, una sorta di terapia. Un ritorno agli Inferi, propedeutico alla salvezza, di cui l’attore è viatico e interprete privilegiato. Orientato per snodi tematici intorno alle parole chiave corpo, respirazione, energia, decostruzione, ritmo, improvvisazione infinita, logos, senso, tempo, lutto, fascino, attore, esercizi, il libro ricostruisce le tappe del viaggio, re-impostando da un punto di vista originale, radicato nel mito e nella classicità, il discorso sul metodo.

Il volume è corredato da un’utile introduzione di Konstantinos Arvanitakis, docente alla McGill University Canadian Institute of Psychoanalysis, e da un ricco corpus di immagini degli spettacoli di Terzopoulos, dalle Baccanti, Eracle furioso e Dionysos di Euripide ai Persiani e al Prometeo incatenato di Eschilo, dall’Antigone ad Aiace. Da La follia di Sofocle a Quartett, Mauser i Materiali per Medea di Müller, fino a Rockabye di Beckett, La signorina Giulia di Strindberg, The Last Mask di Logaras, Alarme composition, e dalla corrispondenza tra Maria Stuarda e la regina Elisabetta, ed Eremos di Michelstaedter.

Tadeusz kantor l'esplosione dei graffi
1 Gennaio 2018

L’esplosione di graffi teatrali di fine Novecento

Doriana Legge, «L’Indice», XXXV-1

ll libro di Hans-Thies Lehmann, a leggerlo come non avesse già la maggiore età, ci parla di una serie di urgenze che il teatro, nel finire del XX secolo, ha esibito sullo sfondo di un paesaggio in rovina. È per lo più un testo che si interroga sull’approccio semiotico dello spettacolo e si concentra sulla centralità della scena, ma senza nascondere uno slancio interdisciplinare che si mostra ancora autorevole a quasi vent’anni di distanza. Pubblicato per la prima volta in tedesco nel 1999 (Postdramatisches Theater, Verlag der Autoren, 1999) tradotto qualche anno dopo in inglese (Postdramatic Theatre, Routledge, 2006), arriva dopo troppi anni nella sua edizione italiana, che si affida alla traduzione della drammaturga Sonia Antinori. Colma questo curioso vuoto la giovane casa editrice Cue Press che negli ultimi anni sta portando avanti un lavoro encomiabile nel panorama teatrale italiano, con belle riedizioni e qualche nuova uscita.

Lehmann parla di postdrammatico a proposito di quelle forme di teatro che, dalla seconda metà del Novecento fino a oggi, hanno modificato il nostro modo di percepire lo spettacolo concentrandosi sull’aspetto dinamico e simultaneo della scena. Le pagine di Lehmann fanno pensare a qualcosa di metodico, ma in realtà è difficile trarre le idee basilari da quella esuberante sequela di artisti e approcci che sul finire del XX secolo hanno irrimediabilmente modificato la scena teatrale che conosciamo oggi. Al teatro postdrammatico Lehmann associa i nomi di Tadeusz Kantor, Heiner Müller, Robert Wilson, The Wooster Group, The Builders Association, Richard Foreman, Big Art Group, Jan Fabre, Jan Lauwers and Needcompany, Frank Castorf, Josef Szeiler/TheaterAngelusNovus, Elfriede Jelinek, Heiner Goebbels, Verdensteatret, Forced Entertainment, Teater Moment, Apocryphal Theatre e Socìetas Raffaello Sanzio. Mancano molti nomi in questo elenco, ma molti ne mancano anche nello stesso testo di Lehmann, eppure è una rassegna necessaria per individuare un tracciato che riempia di segni (chiamiamoli piuttosto graffi) un’ipotetica cartina teatrale mondiale. Da Berlino a Cracovia, New York e Londra, Vienna, Francoforte, Riga e poi l’Italia: la forza di questi graffi sta non tanto nell’intreccio delle traiettorie quanto nel volume che fanno. Sono stati questo volume e la sua portata a permettere oggi una complessità di ragionamento che evidenzia piuttosto le distanze e non le affinità tra pratiche molto diverse, eppure tutte all’interno della categoria che Lehmann identifica come postdrammatico. Se quindi oggi possiamo dare per assimilato il discorso e l’approccio semiotico che è alla base del ragionamento dell’autore, è anche questo il momento per attivare le nostre sensibilità di spettatori verso l’eredità che ci ha lasciato.

Lehmann, che è allievo di Péter Szondi (autore della Teoria del dramma moderno, 1880-1950, Einaudi, 2000) risente inevitabilmente della lezione del maestro e dedica ampia parte della sua riflessione alla crisi del dramma come forma e alla progressiva epicizzazione dei testi drammatici. Quando il modello brechtiano – o più largamente inteso modello epico – iniziò a non sostenere più l’impianto drammaturgico novecentesco e le complessità che lo riguardavano, il teatro postdrammatico ha cominciato a camminare sulle rovine rimaste, chiedendosi cosa davvero volesse dire una messinscena. Lehmann iniziava a parlare di postdrammatico come di una categoria fluida in cui riconoscere alcune pratiche già attive nella cultura teatrale, per dar voce a qualcosa di cui già si percepiva la forma, in maniera forse ancora poco cosciente per chi quella scena la viveva, e anche per chi la praticava. Oggi l’edizione italiana del libro innesca un rovesciamento con cui guardare la memoria storica teatrale, dopo il momento sempre problematico per gli studi che porta a sistematizzare in sequenze e correnti artistiche una storia che non è mai lineare. È a noi spettatori di oggi che è richiesta una complessità di ragionamento che evidenzi più le distanze che non le affinità tra pratiche molto diverse, che hanno saputo vivere il tempo intermittente e sincretico della vita umana e raccontarlo lontano dal logocentrismo.

Dinamicità e pluralismo abitano la scena mondiale sul finire del Novecento, pensiamo a taluni cortocircuiti: nel 1997 Dario Fo riceve il Premio Nobel per la Letteratura in qualità di drammaturgo; un altro tipo di teatro di narrazione conosce i suoi vertici negli stessi anni. Il libro di Lehmann si concentra sull’esplosione dei segni teatrali come rottura dell’impianto gerarchico che ne cristallizzava la forma. C’è un paesaggio teatrale nuovo e sfaccettato sul finire del Novecento: Lehmann cerca di sistematizzarlo, lasciando però aperte fessure da cui entrare.

Decapitani
10 Dicembre 2017

Le 2 (3, 4…) Americhe di De Capitani

Laura Zangarini, «Corriere della Sera»

«Fino agli anni Settanta le contraddizioni della società americana non erano le nostre, dagli anni Ottanta e con la globalizzazione non possiamo che rispecchiarci in essa per decifrare questo nostro complesso presente». A parlare è Elio De Capitani, attore e regista che con Ferdinando Bruni guida la tribù dell’Elfo di Milano, sul cui palco porta in scena dall’8 gennaio, in prima nazionale, L’acrobata di Laura Forti.

Il testo ricostruisce la vita tragica e avventurosa di Josè Valenzuela Levi, nome di battaglia Comandante Ernesto, un cugino dell’autrice, che nel 1986 organizzò il fallito attentato contro Pinochet. Il dittatore cileno si vendicò con brutale ferocia: José, che in famiglia affettuosamente tutti chiamavano Pepo, fu assassinato (disarmato, gli spararono alle spalle) nel giugno 1987 da agenti della Seguridad.

Dice De Capitani: «Quando la storia pubblica si intreccia con quella privata, quando due attori spariscono dalla scena per lasciare il posto alla vita vera, a qualcosa di crudo e straziante, allora si realizza la felicità del regista. Quella che ti fa diventare uno spettatore qualunque, che si siede ed entra nel viaggio dei protagonisti con l’immediatezza delle emozioni e senza nulla più sapere della sua opera, che nasce come nuova davanti a lui. Questo è quello che ho provato vedendo L’acrobata per la prima volta tutto di fila alle prove. Ho visto nascere qualcosa che mi apparteneva profondamente eppure non mi apparteneva più».

Con questa nuova regia, De Capitani sposta sull’America del Sud quello sguardo critico che per circa un decennio ha tenuto puntato sugli Usa di metà Novecento. Uno sguardo critico analizzato anche in L’America di Elio De Capitani (Cue Press, 2016), minuzioso saggio in cui Laura Mariani ha indagato il lavoro di attore di De Capitani intorno a due grandi personificazioni del potere americano, il presidente Richard Nixon, messo alle strette dal conduttore televisivo David Frost sullo scandalo Watergate (Frost/Nixon di Peter Morgan, 2013); e Roy Cohn, il fanatico avvocato di destra, l’assistente del senatore McCarthy all’epoca della caccia alle streghe anticomunista, ricattatore e mestatore politico, morto di Aids a 59 anni nel 1986; uno dei primi mentori di Donald Trump negli anni Settanta, quando l’attuale presidente Usa non era che il rampollo un po’ sguaiato di un impero immobiliare (Angels in America di Tony Kushner, 2007; per il ruolo di Cohn, De Capitani è stato premiato con l’Ubu come Migliore attore non protagonista); oltre a un personaggio cardine della letteratura americana, il loser per definizione, il Willy Loman di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller.

Riflette De Capitani: «Cohn, Nixon e Loman disegnano il volto dell’America, un mondo che attrae con il suo ‘sogno’, tanto vitale quanto devastante, e per questo capace di produrre sofferenze e sconfitte durissime».

Sognare, fingere, immaginare. Aggiunge De Capitani: «L’uomo ha bisogno di simulare ma al tempo stesso rischia di rimanere schiavo della menzogna. Mentire diventa necessario come l’aria per respirare. Specchiarmi nella complessità della menzogna come riflesso in negativo dell’umano istinto di conservazione, mi sembra una necessità di questi tempi, anche se è da sempre la nostra malattia nazionale. Si mente agli altri e soprattutto a sé stessi, per allontanarsi dai propri fallimenti».

Angels in America, un testo che nel 1993 parlava di maccartismo, fanatismo religioso, preoccupazioni ecologiche, «è diventato improvvisamente e tragicamente concreto, comprensibile. Questo è stato il significato del riportare a teatro dieci anni fa un testo ambientato negli anni Ottanta e scritto nei Novanta». Nell’America di oggi – l’America di Trump che, ne è certo De Capitani, «Willy Loman avrebbe votato» – ci si torna a interrogare, come ai tempi dello scandalo Watergate, «sul superamento dei limiti morali del potere affrontati in Frost/Nixon, un testo scritto nel 2006 che ben rappresenta la nostra idea di teatro contemporaneo, un teatro capace di comunicare contenuti complessi e vicende importanti». L’11 settembre ha azzerato le distanze tra noi e l’America: «Il mondo si è bizzarramente ‘rimpicciolito’, mostrando con forza che tutto quello che riguarda gli Stati Uniti ci tocca da vicino. Oggi, con la crisi e il lento ma inesorabile smantellamento del welfare, l’american way of life, la più grande e dinamica delle religioni monoteistiche, si mostra per quel che è: un sogno avvelenato».

Lehmann 4
1 Dicembre 2017

Il teatro postdrammatico

Alfio Petrini, «LiminaTeatri»

La prima edizione del libro risale al 1999. La progettazione a dieci anni prima. Con la traduzione di Sonia Antinori e la postfazione di Gerardo Guccini, la casa editrice Cue Press ha compiuto un’opera meritoria, pubblicando il saggio di Hans-Thies Lehmann Il teatro postdrammatico (Bologna, 2017). In una breve antologia di osservazioni e dialoghi figurano alla fine delle 235 pagine del libro i contributi di Giorgio Degasperi (Un teatro post-epico), Marco De Marinis (Il teatro postdrammatico: un superamento della rappresentazione e della messa in scena), Lorenzo Mango (Crisi di segni e drammaturgia della visione), Antonio Attisani (Un panorama, in realtà, neoaristotelico e neodrammatico), Cristina Valenti (Crisi della personalizzazione drammatica e crisi dell’individuo come agente del conflitto sociale), Marco Martinelli (Il futuro del teatro saranno i piccoli gruppi). Il libro è ricco di contenuti. Non è tuttavia esaustivo, come sostiene lo stesso autore. Il linguaggio – a tratti ideologico – è legato alle idee. Forse troppe.

L’autore getta nel crogiuolo della lettura una serie innumerevole di nomi, con riferimento a periodi storici, gruppi, istituzioni culturali, artisti e movimenti artistici che si sono succeduti nel gigantesco arco temporale che va dal predrammatico a Grotowski, attraverso il drammatico, l’epico, le Avanguardie storiche, il postdrammatico e la performance.

Lehmann non è l’inventore della cosa, come giustamente afferma De Marinis, ma del nome che dà il titolo al libro. Si presume che la raccolta di recensioni, articoli di giornale e riflessioni occasionali sia stata effettuata nel corso degli anni. Non ha alcun tono profetico, anche perché non vuole fare alcuna profezia. E mi pare che abbia ragione Attisani quando, nella breve antologia finale, sostiene che l’opera offre in sostanza un «panorama evocato più che accuratamente analizzato, neoaristotelico e neodrammatico, perché le avanguardie hanno ripreso l’idea fondamentale di Aristotele circa il teatro inteso come estrazione e presentazione delle azioni essenziali, anche a scapito delle tradizionali nozioni di conflitto e di personaggio».

Si ha l’impressione di conoscerlo il libro, e di averlo già letto. Forse, con il passare degli anni, ha perso un po’ di mordente. Superando le resistenze classificatorie che mi sembrano conclusioni inconcludenti, ritengo di poter dire che non sia un genere di teatro ma una metodica di lavoro che l’ipotetico regista e il gruppo stabile dei suoi collaboratori utilizzano per una scrittura scenica incardinata nella relazione fondamentale, interattiva e ineludibile che vive tra palcoscenico e platea, dove conta solo una cosa: lo spettacolo come esperienza individuale e collettiva del gruppo di lavoro. Infatti solo l’esperienza ci può cambiare. Ed è per questo motivo che gli attori più capaci e sensibili, entusiasti del loro lavoro, imparano ad applicare la tecnica per la gestione dell’atto performativo e si pongono come coautori dell’oggetto artistico.

È ragionevole dire che non esiste il teatro, ma tanti modi di fare teatro per tante tipologie di pubblico. Ed è bene che sia così. La cosa importante è che tra palcoscenico e platea accada qualcosa che non provochi noia e quindi uno sgradevole effetto respingente. Vado a teatro per divertirmi e per provare emozioni, non per apprendere concetti. Un po’ più difficile è dimostrare che la crisi del dramma si accompagna alla crisi del conflitto sociale. «Ci troviamo – scrive Cristina Valenti nell’antologia posta alla fine del libro – di fronte alla incapacità di pensare la realtà come connotata dal conflitto».

Dipende allora dalla mia salute mentale la visione di un mondo pieno di conflitti! Ne vedo un’infinità, grandi e piccoli: tra individui, gruppi sociali, comunità nazionali. Il teatro drammatico – a dispetto delle mie predilezioni (orientate verso le forme di teatro totale) – vivrà e sopravviverà a lungo, forse ancora per molti secoli: chi lo può dire?

Ho letto e riletto il libro di Lehmann più volte. Una marea di parole e di racconti. Volevo, per presunzione forse, possederlo per intero: per sentirlo come fosse mio, per poterlo amare e non amare allo stesso tempo. Così ho deciso di chiosarlo, sottoponendo a ragionevole disamina i passaggi che mi sembravano di maggiore interesse e problematicità, provando ogni volta una sincera vicinanza o lontananza dalle idee dell’autore. E conto sulla sua benevola comprensione per la mia eventuale, non auspicabile vaghezza culturale.

Nel capitolo dedicato a Dramma e teatro, Lehmann sostiene che «il teatro moderno ha messo in discussione il modello obsoleto del dramma». Cosa arriverà – si è chiesto – dopo il dramma? Alla domanda ha risposto Szondi, ipotizzando che alla ‘crisi del dramma’ sarebbe seguita una epicizzazione che avrebbe fatto del teatro epico una sorta di chiave universale degli sviluppi futuri. Oggi, questa risposta non basta più. Si fa strada allora una nuova tendenza, incentrata sulla dialettica tra forma e contenuto, e sulla elaborazione della «teoria del dramma moderno» che induce Szondi a sostenere la seguente tesi. «Poiché lo sviluppo del teatro moderno porta oltre lo stesso dramma, non si può evitare di affrontarlo attraverso un concetto opposto: quello di epico». Da allora questo concetto antitetico, con l’aggiunta dell’autorità di Brecht, ha determinato il «blocco totale della percezione e un generale quanto frettoloso consenso su tutto quello che si considera teatro moderno».

E a proposito della ‘cecità’ di Roland Barthes, l’autore del libro sostiene che il semiologo francese non riusciva a vedere l’intero solco del nuovo teatro – da Artaud e Grotowski fino a Wilson –, pur apprezzando il valore delle sue riflessioni di semiotica «sull’immagine, sul senso ottuso, sulla voce, importantissime per questo nuovo tipo di teatro». Dopo Brecht sono nate molte forme di teatro che sfuggono all’indagine del vocabolario dell’epico. Sta nei fatti che ci sia un teatro con dramma e un teatro senza dramma. Ma esiste un genere di teatro che va oltre i generi? Ci sono i teatri della vita e i teatri della scena. I teatri della vita che vengono messi in scena e i teatri della scena che vengono messi in vita.

Condivido il richiamo al meticciato e alle pratiche differenziate, non solo tecnologiche, delle aree intermediali e sinestetiche applicate alle forme della variegata comunicazione teatrale. Per quanto riguarda la pluralità dei segni e le miscele linguistiche eterogenee, non appare scontata la consapevolezza relativa alla dualità della natura e della cultura umana. E allo stesso tempo la visione del reale – negli aspetti della sostanza materiale e/o immateriale, visibile e/o invisibile – di cui si nutre l’azione individuale e collettiva degli artisti agenti nel contesto performativo della scrittura scenica.

La parola interdisciplinare è ambigua. Le discipline – dotate di vita nominale – non possono interagire. Lasciamo la dizione agli assessori alla cultura dei Comuni d’Italia. Interagiscono invece i codici espressivi (di natura verbale, sonora, oggettuale, spaziale, eccetera, eccetera), e gli attori/performer che «non esistono senza gli altri» (Antonio Attisani, Filofisica teatrale, 2017) e che stanno in scena come «collettivo di coscienza» (termine proposto da Giuseppe Vitiello). Un paese civile dovrebbe riconoscere loro il ruolo di co-autori e il beneficio del diritto d’autore per la partecipazione al lavoro di scrittura scenica fondata sulla combinazione di codici che non rimangono separati e distinti, ma producono un valore aggiunto di natura poetica. Un’opera multimediale non è intermediale. Un’opera intermediale è multimediale intertestuale e sinestetica.

Tra le ‘questioni’ aperte si avverte la necessità di fare alcuni approfondimenti. La prima. Fare un teatro civile per un paese incivile, oppure un paese civile per un teatro incivile? La questione è rilevante.

La seconda. Ancora con Attisani sulla nozione di coscienza, che implica «un materialismo di tipo nuovo» sul quale gettare nuova luce. La meditazione è decisamente affascinante. «Non è puramente mentale, è propria di tutto l’essere umano». «L’offerta filosofica» è di Carlo Sini e «rappresenta una novità sostanziale». «In un mondo in cui non bastavano l’economia, la filosofia e la scienza, è nato il teatro. Prima del teatro c’erano le arti dinamiche fuse in un tutt’uno e poi separate. E prima delle arti dinamiche c’era – e c’è – il corpo». Quella segnata da Sini è una svolta che realizza un sostanziale superamento del pensiero occidentale basato soprattutto sul modello di meccanica classica. Per Sini, tutte le cose, compresi i pensieri e le parole sono da considerarsi non come realtà a sé stanti ma come i ‘significati’ che essi assumono con l’interazione con le altre cose, e la filosofia diventa una scienza della interrogazione, anche di se stessa, tra l’altro unificando il paradigma occidentale della terza persona con quello orientale della prima persona. «A me stesso – prosegue Attisani – dico che quella di Sini è una filosofia quantistica, applicando e sviluppando la quale si può stare meglio e più consapevolmente in un mondo visto non come un solido che sta nello spazio e si evolve nel tempo, bensì come un insieme di campi quantistici la cui interazione genera ciò che denominiamo tempo, spazio, particelle, onde e luce. Voglio dire che con Sini si libera il materialismo critico dai lacci della dialettica e dello storicismo in cui è impastoiata per esempio la disciplina teatrale più avanzata, senza ignorarli, ma utilizzando le due categorie in un contesto assai più vasto che, per utilizzare i concetti della fisica quantistica, potremmo definire indeterminismo e relazionalismo . L’indeterminismo è la constatazione che il futuro non è determinato univocamente dal passato, ma è sostanzialmente imprevedibile. Il concetto di relazionalismo nasce dalla constatazione che la realtà è relazione: ogni velocità è relativa a un’altra, ogni ritmo a un altro, tutte le caratteristiche di un oggetto esistono in relazione a un altro oggetto. Il passaggio dal montaggio meccanico alla ‘composizione quantistica’ dell’opera teatrale avviene a. quando una compagnia è un’associazione di individui attivi nel processo creativo; b. quando i suoi componenti provengono da differenti tradizioni; c. quando il lavoro comune comprende il laboratorio (formazione, esercizio e sperimentazione) e, molto importante, d. laddove consapevolmente o meno, si procede verso una riunificazione delle arti dinamiche (poesia, musica, danza, canto e recitazione)».

E ancora. Il tema del rapporto tra palcoscenico e platea, altrimenti conosciuto come drammaturgia dello spettatore, pur risultando pratica ineludibile, allo stato delle cose risulta poco nota, poco conosciuta e ancor meno praticata. Le istituzioni culturali pubbliche dovrebbero impegnarsi seriamente nella trasformazione delle brutte parole – come promozione del pubblico e diffusione della cultura teatrale – in progetti di bella e concreta fattualità. Meno politica, dunque, e più politiche per l’uso sociale del bene culturale teatro. E a proposito delle ‘questioni’ aperte trova accoglimento la via di fuga che assegna alla ricerca teatrale valori di natura non solo filosofica, come abbiamo potuto constatare, ma – in senso critico – anche sociale. Le cose cambiano. Le cose sono sostanzialmente cambiate. Il teatro politico ha cambiato nome: è diventato teatro d’impegno sociale, oppure teatro che cura, percorrendo strade poco fantasiose. Ma il teatro d’impegno sociale deve essere sociale o a-sociale? Questo è il punto. Per quanto ho sperimentato nel corso degli anni credo che debba essere a-sociale. E pertanto barbarico. Più dice meno dice. Più spiega, più descrive, più è edificante, più si allontana dalla poesia della scena.

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Manthey 1096 001
23 Ottobre 2017

Il teatro postdrammatico di Lehmann. Un paesaggio di rovine?

Doriana Legge, «Teatro e Critica»

Vent’anni fa parlare di postdrammatico suggeriva il riferimento a una categoria fluida in cui riconoscere alcune pratiche già attive nella cultura teatrale, dare voce a qualcosa di cui già si percepiva la forma, in maniera forse ancora poco cosciente per chi quella scena la viveva. L’edizione italiana del libro di Hans-Thies Lehmann (con la traduzione di Sonia Antinori), che arriva con imperdonabile ritardo dalla sua prima pubblicazione nel 1999, ha il pregio di poter innescare un rovesciamento della memoria storica teatrale – dopo il momento sempre problematico per gli studi che porta a sistematizzare in sequenze e correnti artistiche una storia che non è mai lineare. Sono allora le distanze e non le affinità tra pratiche diverse che ci restituiscono la complessità di un periodo in cui le stelle del teatro non cadono più dal cielo, piuttosto nascono dalle rovine.

Ragioniamo allora sul rapporto tra passato e presente del postdrammatico come un periodo incandescente e ancora in atto, ma con delle sacche di resistenza importanti di cui sarebbe anche d’obbligo parlare. Due anni prima dell’uscita del libro – nel 1997 – Dario Fo riceve il Premio Nobel per la Letteratura, lo riceve in qualità di drammaturgo. Cortocircuiti, eppure spie di un pluralismo di cui la scena di fine Novecento ha saputo godere. La fecondità di un post esplosione quando i segni teatrali rompono l’impianto gerarchico per avanzare «verso la pienezza di nuove possibilità, la creazione dopo il crollo».

Ne I giganti della montagna, Pirandello immagina una recita organizzata da una compagnia sbandata, non più in grado di trovare teatri pubblici per i propri lavori. Lo spettacolo si conclude con il sacrificio e la morte dell’attrice Ilse, mentre tutti gli altri attori sono aggrediti da un pubblico indifferente alla scena. Pirandello ci parla del teatro in un tempo schiacciato da forze negative. Ci parla di una frattura, provocata da nuove dinamiche socioculturali che hanno costretto il teatro a mutare il proprio ruolo nella società. La definisce «cavalcata d’un’orda di selvaggi» quella dei Giganti che scendono dalla montagna, che marciano sulle rovine, per andare a inebriarsi di un altro rito, che non è quello teatrale, ma la celebrazione di nozze importanti.

Molti decenni dopo, il postdrammatico prende in carico questa frattura tra la scena e chi la dovrebbe osservare e la fa diventare un’urgenza molto prolifica. Robert Wilson, Gertrude Stein, Heiner Müller, Heiner Goebbles, Robert Lepage, Jan Fabre sono i Giganti – non più indifferenti – che dalle rovine di una società hanno saputo trascendere ogni interpretazione razionale della vita, e portare sulla scena il caos. Hanno saputo vivere il tempo intermittente e sincretico della vita umana e raccontarlo lontano dal logocentrismo. I Giganti hanno costruito nuovi edifici e delle macerie hanno fatto fondamenta di strutture che albergano più in aria che sulla terra.
Invece di attardarci sugli impianti stabili di una proposta che è ormai teoria, bisognerebbe allora cogliere l’invito di Lehmann a pensare il postdrammatico come «un nuovo teatro nel quale le figurazioni drammatiche potranno ritrovarsi, dopo che Dramma e Teatro si sono tanto allontanati» (p. 161).

ll libro di Lehmann, ancor più oggi, ci pare il tracciato che uno storico puntuale e preciso, eppure visionario, ha delineato per individuare il postdrammatico come categoria teorica dai confini mobili. L’invito allora è quello a mettersi in ascolto di quello che sta accadendo attorno. Pensiamo ad esempio a quanto oggi i codici narrativi siano sfruttati nel pubblico come nel privato, attraverso uno storytelling che è risultato del racconto quotidiano di noi stessi. A quanto la narrazione delle azioni sembri fagocitare l’esperienza delle azioni stesse. E come questo possa essere l’ennesima spia di una parola che davvero non basta più. Persino a immaginarla così rapidamente ci pare che questa sia già un’altra storia, di cui presto riconosceremo nuovi Giganti.

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Lehmann 1
13 Ottobre 2017

Oltre la performance

Francesco Ceraolo, «Fata Morgana»

La pubblicazione in italiano de Il teatro postdrammatico di Hans-Thies Lehmann è un avvenimento di grande rilevanza che la teatrologia italiana non può assolutamente sottovalutare. Si tratta, senza dubbio, del più importante studio sistematico sul teatro contemporaneo post-drammatico (cioè puramente performativo) della seconda metà del Novecento, che ha influenzato una generazione di studiosi e che, con estremo ritardo (l’edizione originale tedesca è del 1999), arriva finalmente anche da noi.

Leggendo a distanza di tanti anni dall’uscita il testo proposto da Cue Press nella traduzione italiana di Sonia Antinori, fosse anche unicamente per una coincidenza temporale, non si riesce a non mettere in relazione quanto scritto da Lehmann sul finire dello scorso secolo e quanto, più o meno negli stessi anni, opponendosi radicalmente alla deriva performativa del teatro contemporaneo analizzata e valorizzata da Lehmann, ha proposto Alain Badiou nel corso della sua personale ricerca filosofica sulla singolarità dell’evento teatrale. Le ragioni che hanno portato Badiou a tale posizione le ritengo valide, perché contestano la possibilità stessa di definire la singolarità teatrale sulla scorta del concetto fluido di performance, che al contrario, a partire da Schechner, ha ‘dissolto’ la prassi teatrale all’interno di un regime sociale ed estetico incapace di cogliere la sua unicità in relazione alle forme e ai linguaggi del mondo. Si tratta tuttavia di un nodo cruciale e problematico della teatrologia contemporanea che si cercherà nuovamente di riproporre e analizzare in questa sede.

Pur nella loro divergenza radicale, vi è un chiaro punto di coincidenza tra l’analisi di Lehmann e quella di Badiou: il riconoscimento di un’analogia formale tra prassi teatrale e prassi politica. Qui effettivamente si gioca una delle tesi più convincenti del testo di Lehmann: la fondamentale definizione di postdrammatico viene infatti fornita in relazione a quella che lo studioso tedesco definisce una «politica della percezione» (Wahrnehmungspolitik) e un’«estetica della responsabilità» (Ästhetik der Verantwortung). Secondo Lehmann la forza del teatro performativo e ‘senza testo’ – che ha caratterizzato il teatro sperimentale dalle Neoavanguardie degli anni Sessanta – consisterebbe nel fatto che, all’interno della ipermediatizzata società contemporanea dello spettacolo, scartando dal suo tradizionale referente letterario esso sia stato in grado di produrre un’esperienza etico-politica a partire da un coinvolgimento di «attori e spettatori nella produzione di immagini teatrali», rendendo dunque visibile quel legame spezzato dai dispositivi mediali tra esperienza personale e percezione.

Se per Badiou l’analogia del teatro con la politica si instaura nel contesto di una messa in relazione dell’eternità del testo con l’istante della situazione, per Lehmann la coincidenza tra teatro e politica trova forma proprio nel passaggio dal drammatico al post-drammatico, ovvero nel processo di superamento della concezione dell’evento teatrale quale semplice mediazione tra il testo e lo spettatore (come invece lo intende Badiou) e, conseguentemente, quale momento di affermazione della centralità dell’esperienza diretta e non mediata, in cui cioè colui che ‘invia i segni’ (il performer) e colui che li riceve (lo spettatore) sono sullo stesso piano. In altre parole, il teatro postdrammatico rappresenterebbe una sorta di forza residuale nel contesto dell’attuale orizzonte delle arti perché riaffermerebbe il valore dell’esperienza in quanto tale, della sua forza intimamente politica.

La prima, e più significativa, obiezione che si potrebbe muovere alla suggestiva tesi di Lehmann è però questa: il teatro, così inteso, diventa una prassi sociale, un indistinto coacervo di flussi e pratiche di vita in cui l’esperienza umana è interamente dispersa. Non un teatro inteso come luogo di una singolarità posta al cospetto e in relazione alla vita, ma un teatro che diviene momento indistinto della vita stessa, in cui la vita cioè non è sottoposta ad alcun processo di palingenesi semplificativa, ma è riproposta in quanto tale, senza scarti.

Proseguendo, a partire dall’analogia tra teatro e politica, troviamo un ulteriore punto di convergenza tra l’analisi di Lehmann e quella di Badiou, ed è la valutazione ‘critica’ dell’esperienza novecentesca che su quella analogia ha maggiormente lavorato: il teatro epico di Bertolt Brecht. Per Badiou infatti Brecht rimane il più importante esponente dell’apprensione ‘didattica’ dell’esperienza artistica (quella che, iniziando con Platone, ha negato un’autonomia dell’artistico in nome di una sua sottomissione al politico), mentre per Lehmann l’autorità di Brecht non è sufficiente a spiegare l’evoluzione del teatro nella seconda metà del XX secolo, poiché nonostante il suo enorme impatto sul concetto storico di performance, essa rimane incorporata all’interno di una concezione interamente drammatica dell’evento teatrale. Alla centralità della figura di Brecht, Lehmann sostituisce quella di Artaud, vero referente dell’emergere di quelle esperienze della neo-avanguardia negli anni sessanta (come gli Happenings, i Fluxus events, la video arte), che hanno portato al «dispiegarsi e la fioritura di un potenziale di disintegrazione, smontaggio e decostruzione nel dramma stesso», e in cui una rinnovata attenzione alla materialità della performance (e conseguente isolamento del testo a elemento secondario dell’evento teatrale) sono emersi in modo evidente.

Ma è proprio attorno alla figura di Brecht che si gioca uno snodo critico fondamentale dello studio di Lehmann. Perché partendo dall’analisi del teatro epico brechtiano Lehmann intende fondamentalmente prendere le distanze dall’altro grande trattato sulla crisi del paradigma drammatico, la Teoria del dramma moderno di Péter Szondi, e in particolare dalla sua prospettiva che vede nell’opposizione dialettica tra forma e contenuto l’origine di tale crisi, di cui l’epicizzazione del teatro è stato il momento decisivo. Questa prospettiva, sostiene Lehmann, porta a una cecità verso quelle esperienze teatrali che esistono al di fuori della forma drammatica, non prendendo in considerazione la possibilità di una riorganizzazione ontologica dello statuto del teatro estranea alla sfera del testo.

Ora, se è sicuramente vero che la grande forza teorico-analitica dell’operazione di Lehmann è innegabile e che, se vogliamo, consiste proprio nel fatto che il suo impianto sfugga ad una classificazione precisa – com’è altrettanto vero che la straordinaria capacità sistematica e sintetica del suo lavoro rappresenti un esempio irrinunciabile in un’epoca in cui arrischiarsi nel campo della sistematicità sembra un’operazione sempre più scongiurata –, il rifiuto tanto dell’impianto dialettico szondiano quanto dell’asistematicità postmoderna, diviene paradossalmente il vero punto debole del lavoro di Lehmann, perché lo porta verso un ‘pensiero critico’ e negativo, verso l’impossibilità cioè del ripensamento etico-estetico del mondo a partire dalla prassi artistica, e invero fino a un sociologismo che ha in Adorno il più importante referente.

Ciò emerge, solo per fare un esempio, da uno dei passaggi teorici più significativi (il paragrafo intitolato Hegel 1: l’esclusione del reale), in cui Lehmann analizza e adotta la famosa tesi hegeliana del carattere passato dell’arte, individuando in essa i germi del decadimento del dramma. Dopo aver dato conto della riflessione di Christoph Menke sulla teoria hegeliana del dramma, Lehmann afferma che le contraddizioni all’interno del canone moderno, quali la riconciliazione tra bellezza e etica, manifestano già «quelle tensioni che aprono alla crisi, allo scioglimento e, infine, alla possibilità di un paradigma non-drammatico». In altre parole, Lehmann sostiene che già a partire dall’estetica di Hegel l’ideale di bellezza artistica intesa come «stratificata riconciliazione degli opposti, […] bellezza e etica» emergerebbe come irriconciliabile. L’ideale del dramma, conclude in modo significativo, si trasforma in una «palese crisi di un concetto etico di bellezza», aprendo ad una esperienza indissolubilmente conflittuale la cui portata ha condotto al necessario ripensamento del suo statuto.

In altre parole, è nella crisi della capacità di significazione dell’arte rispetto al mondo che risiede l’origine dello scarto verso il postdrammatico. È cioè nelle crepe di un’insanabile frattura tra opera e realtà che il teatro, incapacitato a costruire proposizioni ideali, ha ridefinito la sua natura attorno alla dimensione materiale del suo accadere, proprio per evitare la reificazione stessa del positivo, di una bellezza etica ormai compromessa. Questa forma di dialettica negativa porta nei fatti Lehmann a negare l’autonomia dell’evento teatrale, a ‘dissolvere’ nelle prassi reali la sua singolarità, non definendola più in relazione a quell’esterno – a ciò che esiste al di fuori delle forme teatrali stesse, alle forme di vita nel loro complesso –, che il teatro, nella sua unicità, dovrebbe invece essere in grado di cogliere e rappresentare.

La potenza dunque sistematica del lavoro di Lehmann, tanto il suo non aver accettato un compromesso al ribasso nell’analisi e nella capacità di gestione dell’immenso panorama di esperienze artistiche e performative di cui fa oggetto, quanto l’abilità di smarcamento dalle secche teoriche dei performance studies degli ultimi decenni, fanno della sua opera un punto di riferimento imprescindibile. Tuttavia, l’orizzonte intellettuale in cui si muove, i suoi riferimenti critico-teorici, misurati oggi, a distanza di tanti anni dalla sua prima apparizione, lo fanno apparire come l’ultima grande opera di un secolo che deve ormai essere considerato chiuso. Per questa ragione, il punto di arrivo della sua impostazione e prospettiva speculativa (e delle esperienze artistiche che analizza), la cui importanza è certamente innegabile, sembra essere giunto in Italia troppo tardi, proprio nel momento in cui andrebbe superato.

Collegamenti

Lehmann 2
1 Ottobre 2017

Hans-Thies Lehmann arriva in Italia

Diego Vincenti, «Hystrio», XXX-4

Alla sua prima edizione in italiano (finalmente), Il teatro postdrammatico di Lehmann è uno di quei pochi saggi che hanno davvero segnato il loro tempo. Un frame. Di una scena in profonda evoluzione a fine millennio. Teorica e pratica. Ma si ferma mai il teatro? Non che sia invecchiato dunque il libro di Lehmann, tre edizioni in Germania dal 1999. Ma forse ha perso un po’ di freschezza.

Intatta invece la lucidità d’analisi e la capacità di raccogliere in maniera perfino storico-compilativa l’orizzonte artistico maturato poi negli anni Novanta. Quella distanza sempre più ampia fra un teatro a base drammaturgica e una creatività più vasta, libera verrebbe da dire, dove il testo è secondario (quando non assente) a favore di una partitura scenica modulare. Con buona pace della parola. E basta fare un giro per palcoscenici metropolitani e festival estivi, per comprendere quanto il regno della drammaturgia sia stato scardinato dalla performing art, se non dall’arte contemporanea. Lehmann racconta tutto questo. Preziosa dunque l’edizione voluta da Cue Press, sempre solida e centrata nelle scelte, qui con una pubblicazione di grande utilità. E prestigio.

Traduzione di Sonia Antinori, che firma anche una nota a margine che ben sintetizza la portata profetica e perfino antropologica del volume, a fronte di un concetto base ormai acquisito. Come non condividere? Tanti invece gli spunti da ritrovare con rinnovato entusiasmo: dal non utile antagonismo fra ‘teatri’, alla tesi per cui le sperimentazioni anni Sessanta non abbiano in realtà trovato i propri modelli nelle avanguardie storiche d’inizio Novecento (per quanto andasse di moda affermare il contrario); dalla meticolosa lista degli autori del panorama postdrammatico, al confronto fra mainstream e sperimentazione, l’ampia digressione sul dramma e la sua evoluzione (con ramificazioni filosofiche e la centralità teorica dell’amato Brecht), l’analisi del concetto di performance e la volontà di andare oltre l’azione. Chiude il volume un intervento di Gerardo Guccini sul rapporto fra Lehmann e l’Italia, con un’antologia di osservazioni e dialoghi.